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La crisi politica italiana, ormai ad un passo della crisi istituzionale, sta facendo emergere un fondo limaccioso. Si intreccia il giusto risentimento di chi ancora soffre per le precarie condizioni di vita, all’azione di cattivi maestri. Intellettuali che abbandonano ogni funzione pedagogica per un momento di notorietà in qualche talk show dai toni incandescenti. Naturalmente l’imputato numero uno è Sergio Mattarella, ritenuto colpevole di non aver favorito la soluzione proposta. Popolo contro élite. Sovranità calpestata in nome di oscuri interessi, che albergano fuori dai confini nazionali.

Se Mattarella ha avuto un torto, è stato quello dell’eccessiva pazienza dimostrata. Ha consentito che le procedure per formazione del nuovo governo non rispondessero pienamente alle prassi ed alle regole costituzionali. Poteva fare diversamente: concedere il mandato esplorativo, alternativamente, alla coalizione di centrodestra e, in caso di fallimento, ai 5 stelle. Forse non sarebbe cambiato nulla. Ma tutto si sarebbe svolto nell’assoluta trasparenza: senza quei conciliaboli programmatici che hanno allarmato i mercati. La moratoria di 250 miliardi richiesta alla Bce e poi fatta cadere, oppure il referendum sull’euro. Tutte cose dette e non dette, ma capaci di portare l’Italia sull’orlo del default. Con i principali istituti di credito – Banca Intesa e Unicredit – che dal 15 maggio hanno bruciato più del 15 per cento del capitale in Borsa. Per le altre banche è andata anche peggio.

Propositi, questi ultimi, non esplicitati durante la campagna elettorale. Con la conseguenza di non indicare ai tanto incensati “cittadini” quale era la vera posta in gioco, per soddisfare le bizzarre proposte di “cambiamento”. E come si sarebbe, alla fine, pagato il conto. Soprattutto a carico di chi, visto che la facoltà di moltiplicare pani e i pesci non appartiene alla sfera degli umani. L’indicazione di un ministro dell’economia, in sintonia con questi propositi, ha fatto traboccare il vaso. Ed a poco sono servite le sue successive contradditorie prese di posizione. Da troppo tempo Paolo Savona ha insistito su quegli argomenti. Con un atteggiamento tranchant. Esisto margini, anche ampi, per una trattativa con l’Europa che consenta di modificare le regole del fiscal compact. Ma tutto ciò richiede un’intelligenza ed una misura che, francamente, finora non si è vista.

Mattarella, quindi, alla fine è stato costretto ad intervenire. Si tratta di una violazione dei principi costituzionali, tale da prefigurare quanto previsto dal primo comma dell’articolo 90 della Costituzione? Alto tradimento o attentato alla Costituzione: dato che l’impeachment, nel nostro ordinamento, semplicemente, non esiste? Chi ragiona in questo modo lamenta una violazione del secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione. Ma è una lettura di comodo. “La sovranità appartiene al popolo”. Ma quest’ultimo “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Espressione, quest’ultima, che non è una semplice formula di stile.

Nel dibattito alla Costituente si discusse molto in tema di tirannia della maggioranza. La sovranità appartiene a tutto il popolo. Non ad una parte di essa. Vale a dire alla sola maggioranza che vince le elezioni. Ne deriva che la tutela della minoranza rientra pienamente nei doveri inderogabili del Presidente della Repubblica, in quanto rappresentante “dell’unità nazionale” (articolo 87, primo comma). Elemento che legittima pienamente l’azione dell’inquilino del Quirinale.

Gli elementi che Lui stesso ha ricordato, nella rigorosa ricostruzione dei fatti, che lo hanno portato ad assumere una decisione sofferta, (lo si è visto plasticamente) stanno lì a dimostrarlo. La scelta dei singoli ministri non è un semplice atto notarile. Spetta a lui la nomina del Presidente del consiglio e, su proposta di questo, dei Ministri (articolo 92). Un potere discrezionale che gli appartiene in modo esclusivo. Siamo quindi in una fattispecie completamente diversa dalla normale dialettica che si manifesta subito dopo. Quando i suoi stessi atti sono validi esclusivamente se controfirmati “dai ministri che se ne assumono la responsabilità”. In un’ottica completamente rovesciata.

L’unico mistero che rimane, al termine di quest’ingarbugliata vicenda, è la rigidità dimostrata dai principali leader politici. Che, con un minimo di elasticità, potevano risolvere diversamente il problema, evitando di accentuare la crisi. Il Presidente della Repubblica non aveva pronunciato un semplice “niet”. Si era adoprato per suggerire una diversa soluzione che rientrava completamente in quella “moral suasion” che, da tempo immemorabile, ha sempre caratterizzato l’elemento più delicato della sua funzione di guida della Nazione. Non è stata accettata. Sebbene il nome avanzato dal Presidente del consiglio incaricato, dopo un’estenuante mediazione, non fosse il risultato di una lunga precedente e sperimentata collaborazione politica con le forze della costituenda maggioranza parlamentare. Rimane, quindi, qualcosa di difficile comprensione agli occhi dei “cittadini”. Che sarebbe necessario spiegare. Per evitare che tutto non si risolva in una semplice “impuntatura” solo apparentemente motivata da una cattiva interpretazione delle norme fondamentali che regolano (ancora) la vita di un Paese democratico.

Mattarella

Il torto di Mattarella? L’eccessiva pazienza dimostrata

La crisi politica italiana, ormai ad un passo della crisi istituzionale, sta facendo emergere un fondo limaccioso. Si intreccia il giusto risentimento di chi ancora soffre per le precarie condizioni di vita, all’azione di cattivi maestri. Intellettuali che abbandonano ogni funzione pedagogica per un momento di notorietà in qualche talk show dai toni incandescenti. Naturalmente l’imputato numero uno è Sergio…

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