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La sentenza di Palermo chiude, per il momento, nella maniera peggiore una delle più buie storie del nostro sistema giudiziario. E forse è una sentenza che cambierà definitivamente il nostro già debole ordine democratico. Non tanto per la sentenza in sé, si tratta di una sentenza di primo grado con la partecipazione della giuria popolare che ha accolto le tesi dell’accusa, quanto per l’enorme condizionamento politico e mediatico che chi doveva giudicare ha subito. Ma anche per le reazioni politiche e mediatiche che ad essa sono seguite.

Dell’assenza di prove e dell’uso spregiudicatamente strumentale dei pentiti si è scritto e si scriverà ancora molto. Come anche della circostanza che il generale Mario Mori, colui che ha arrestato Totò Riina, sia stato già assolto in altri processi per la medesima ipotesi di reato e del fatto che questa sentenza non tenga minimamente conto di tali assoluzioni e che la pubblica accusa non abbia tenuto minimamente conto delle conclusioni a cui sono giunti altri processi.

Quello che più colpisce è assistere al violento regredire della cultura politica di una democrazia che di fronte a comportamenti così distorti e lesivi dei nostri principi costituzionali reagisce quasi con indifferenza, se non con vergognoso opportunismo.

Certo, questo è stato lo “spirito” del 1992, di “mani pulite” e dei lunghi e tristi anni di un lacerante e continuo indebolimento delle nostre basi democratiche, del fallimento del nostro sistema giudiziario e dello scontro politico che è diventato lotta tra bande all’interno dello Stato. In quegli anni i partiti, invece di reagire all’attacco mediatico-giudiziario che affondava il suo intervento in un tessuto politico ormai debole e corrotto, affrontando il problema al proprio interno e rivendicando il primato della politica, hanno ceduto spazi di potere e prerogative fino ad annullare la propria capacità di governo del sistema giudiziario e forse dell’intero sistema democratico.

I partiti hanno iniziato rinunciando all’immunità parlamentare, che è un caposaldo del principio di separazione dei poteri, fino al reclutare magistrati nei ruoli politici di maggior rilievo; assessori alla legalità; leggi che equiparano, nelle misure cautelari, il reato di mafia a quello di peculato; leggi che introducono l’immunità per i delatori, fino alla legge Severino. Tutto per cercare di convincere l’opinione pubblica della propria volontà di essere “onesti”. I partiti hanno chiuso gli occhi di fronte al dilagare dell’uso della custodia cautelare, di fronte ad aziende chiuse dai pubblici ministeri, di fronte alle migliaia di gravissimi errori giudiziari, salvo scandalizzarsi quando ad essere arrestato è un compagno di partito.

I partiti, in altre parole, non hanno mai avuto la forza politica di affrontare il vero problema delle moderne democrazie che è la corruzione, la cui responsabilità è nei partiti e nella loro capacità di selezionare persone oneste per le funzioni pubbliche. Hanno così perso qualsiasi capacità e autorevolezza per riformare la giustizia, a partire dalla separazione delle carriere e dal divieto dei magistrati di entrare in politica senza dimettersi dai ruoli in magistratura. Non hanno difeso la stragrande maggioranza dei magistrati onesti che fanno il loro lavoro con serietà nonostante l’inefficienza del sistema giudiziario.

Questa cedevolezza pavida e opportunistica non ha certo soddisfatto l’aggressione mediatico-giudiziaria che ha continuato la propria azione eversiva nei confronti delle nostre ormai debolissime istituzioni. A ciò ha contribuito la politica stessa che ha trasferito il proprio scontro interno sul piano giudiziario, chiamando essa stessa in causa la magistratura nelle lotte interne di potere. Quanti casi di carriere politiche distrutte per indagini clamorose accompagnate dal severo rigore giudiziario di leader politici pronti a divenire garantisti solo quando ad essere colpito fosse stato un “compagno di corrente”? I due pesi e le due misure sono stati evidenti nei casi degli “impresentabili” nelle liste elettorali e nel voto sulle autorizzazioni all’arresto di tanti parlamentari.

Sono passati più di 25 anni e oggi siamo all’epilogo di questa lunga e penosa storia. Il Movimento 5 Stelle, che della lotta alla politica corrotta ha fatto la propria bandiera, ha raggiunto il 32% dei consensi. Il pubblico ministero Di Matteo ha combattuto come un leone per imbastire la tesi accusatoria della trattativa tra lo Stato e la Mafia, senza prove. Il pubblico ministero Di Matteo ha parlato a #SUM02 della sua proposta di riforma del sistema giudiziario, proponendo di eliminare le ultime poche garanzie che la difesa ha nel nostro ordinamento. Ed è stato accolto da una standing ovation dei grillini. Lo stesso esultare che abbiamo letto nelle parole dei vertici del Movimento 5 Stelle e del presidente della Camera dopo la sentenza. Tutto ciò nel pieno di una crisi istituzionale per la formazione del nuovo governo per l’avvio della XVIII legislatura. Nel momento, quindi, di maggiore fragilità democratica.

Oggi sarebbe necessario un colpo di reni di tutte le forze politiche che credono nella necessità di tornare ad avere un sistema politico forte, in grado di mettere ordine nella confusione istituzionale del nostro Paese. È una priorità. Da questa crisi dipende la tenuta del nostro sistema democratico e la possibilità di dare un futuro prospero ai nostri giovani. Un paese con solide basi democratiche e con un sistema istituzionale stabile che protegga i propri cittadini e dia certezza del diritto. Ma non c’è da essere ottimisti.

sentenza parisi

I due pesi e le due misure della sentenza di Palermo che non fanno bene al Paese. Parola di Parisi

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link, vincenzo scotti

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