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Come ha detto uno degli ospiti in studio durante un programma di approfondimento in onda su Russia-1, primo canale statale russo, “qualcosa di grosso sta per accadere”. Si riferiva a un prossimo incontro tra il presidente americano Donald Trump e la Russia, intesa in declinazione Vladimir Putin, che a ben vedere arriverà alla fine di una nuova ondata di avvicinamento iniziata già più di un mese fa.

Andiamo in ordine cronologico e iniziamo da qui: l’ambasciatore americano in Russia, John Huntsman, non ha preso parte al panel a cui era stato invitato (ci sarebbe dovuto essere al suo fianco un poco raccomandabile Viktor Vekselberg, oligarca putiniano finito nel giro di sanzioni con cui il Tesoro statunitense sta provando ad allontanare l’élite da Putin), ma il 21 maggio – per la prima volta dall’annessione crimeana del 2014, dettaglio fondamentale – era alla guida di una modesta e discreta delegazione ufficiale americana che si aggirava tra le sale del putinianissimo Forum di San Pietroburgo.

Il primo di giugno il Wall Street Journal, giornale con ottime entrature nell’amministrazione anti-media non-amici di Trump, ha scritto che un nuovo incontro tra i due presidenti ci sarebbe stato “prima della fine dell’estate” (nel tempo questi rumors si sono fatti via più concreti fino ad arrivare a una data quasi certa: metà luglio, forse a Vienna).

Il 7 giugno, giorno in cui si sono riuniti i leader del G7 in Canada, Trump ha detto pubblicamente che secondo lui era giunto il momento di riallargare il sistema del summit alla Russia e ripristinare così il G8: capisco tutto, ha detto (semplificando) Trump, ma Mosca è un interlocutore fondamentale e non possiamo permetterci di lasciarla isolata e non coinvolgerla nei dossier più importanti.

Il 20 giugno, il presidente della Commissione affari internazionali della Duma (la Camera russa), Leonid Slutsky, ha detto che un gruppo composto da “quattro o cinque” senatori sarebbe arrivato a Mosca “nei prossimi giorni”. I senatori sono quattro: John Kennedy, transfugo democratico dal 2017 rappresentante repubblicano della Louisiana; Richard Shelby, repubblicano dall’Alabama (presidente della Commissione stanziamenti che in questi giorni s’è visto con Trump per via dei soldi da dare al Muro); Steve Daines del Montana e John Hoeven del North Dakota.

I primi due, il 21 giugno, hanno confermato ufficialmente la loro presenza e quella degli altri alla CNN, spiegando che saranno nella capitale russa per prendere parte un ricevimento che la locale ambasciata americana ha organizzato in occasione della festa dell’Indipendenza del 4 luglio. Si tratta di contatti intrecciati dalla feluca statunitense Huntsman, “incontri di alto livello [perché] pensiamo che sia positivo, per noi, parlare”, ha spiegato Shelby.

Sempre il 21 giugno, il nuovo portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale, Garret Marquis, ha diffuso la sua prima dichiarazione pubblica (ha preso l’incarico il 19) annunciando che il 25 e il 26 di questo mese il suo capo, il consigliere John Bolton, sarà a Londra e Roma, tappe preliminari di un viaggio che lo porterà fino a Mosca, dove discuterà dell’incontro Trump/Putin.

In mezzo alla linea dura tenuta dall’amministrazione, la volontà del presidente di non perdere troppo i contatti con la Russia sta avendo una nuova spinta. Trump ha motivazioni strategiche: per esempio teme che isolare troppo Putin possa essere controproducente, anche perché potrebbe portare Mosca troppo vicino a Pechino.

La Russia continua a essere sotto sanzioni americane e internazionali, per le responsabilità sull’Ucraina (dove continua a non accettare l’implementazione degli accordi di pacificazione di Minsk), per le interferenze nelle procedure elettorali di altri paesi (assodate quelle durante le presidenziali americane e francesi, ora l’Intelligence Community americana teme per le Midterms di novembre), è accusata di crimini pesanti in Siria, dell’assassinio della spia Skripal (vicenda che ha prodotto un terremoto diplomatico contro Mosca) e dell’abbattimento del volo malese Mh370 sui cieli ucraini.

Putin non è arretrato su niente di tutto questo, non ha dato nemmeno mezzo chiarimento su certe vicende, però c’è questa necessità di averlo come interlocutore che è condivisa da Washington come da Roma, ma pure da Parigi e Berlino. D’altronde, ha spiegato il membro della Duma Kostantin Zatuli, la Russia non è la Corea del Nord, non ha bisogno di fare qualcosa di speciale per essere riconosciuta come una grande potenza: “Stiamo già facendo tutto ciò che vogliamo in Ucraina e in Siria”.

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