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Se tre indizi fanno una prova allora il ritorno dello Stato in Alitalia è una pista abbastanza solida. Per l’ex compagnia di bandiera sono settimane decisive per capirne il destino (qui un approfondimento sul tema). Cessione a un vettore più grande oppure ennesima nazionalizzazione dopo anni di gestioni fallimentari? A corroborare la seconda opzione ci sono una serie di considerazioni di fatto, che vale la pena tenere bene a mente per capire dove sta andando Alitalia.

Punto primo, quello più politico. Sia il Movimento Cinque Stelle sia la Lega hanno sempre avversato la prospettiva di una vendita della compagnia a un operatore terzo. E non perché il cantiere per la cessione di Alitalia sia stato ufficialmente aperto da un governo (Gentiloni) a guida Pd, ma per il semplice fatto che è sbagliato disfarsi di un asset che per il governo legastellato è considerato come strategico.

Il secondo indizio porta direttamente al decreto Alitalia che allunga al 31 ottobre il termine per individuare il compratore con cui intavolare la trattativa in esclusiva e a fine anno il rimborso del prestito ponte da 900 milioni che oggi rappresenta la quasi totalità della cassa Alitalia. Un provvedimento resosi necessario alla luce dell’arenarsi delle trattative tra i pretendenti (EasyJet e Lufthansa su tutti) e il governo.

I tedeschi per esempio avevano posto a condizione del salvataggio una robusta ristrutturazione con ampi tagli di personale. Ma il governo, per mano dell’allora ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, non se l’è sentita di sottostare a tale condizione. Alla fine l’esecutivo è stato obbligato ad allungare i tempi di vendita aumentando così (nel frattempo c’è stato il voto del 4 marzo) le chance che una nuova compagine governativa potesse sparigliare le carte.

Ancora, e siamo al terzo indizio, nel fine settimana arriverà la nuova governance gialloverde in Cassa Depositi e Prestiti guarda caso proprio il veicolo con cui Lega e Cinque Stelle avevano immaginato di portare ancora una volta lo Stato dentro la compagnia. Una cloche molto più allineata della precedente (Costamagna-Gallia) non potrebbe che agevolare la volontà politica del governo di non disfarsi di Alitalia. Il che vanificherebbe almeno sulla carta il lavoro di risanamento svolto finora dai tre commissari, Enrico Laghi, Luigi Gubitosi e Stefano Paleari. La mission originaria era infatti quella di rimettere in sesto il vettore per renderlo il più appetibile possibile a un compratore dalle spalle larghe.

L’esecutivo, va detto, al momento non ha scoperto ancora le carte. Non del tutto almeno (manca l’apertura ufficiale al rientro dello Stato del ministro dello Sviluppo Luigi Di Maio). Perché Giulia Lupo, senatrice pentastellata ed ex assistente di volo Alitalia che ben conosce l’azienda e suoi acciacchi, vede per la compagnia un futuro con una presenza tangibile (magari fino a un quarto del capitale di una eventuale newco) da parte dello Stato.

“Certamente: abbiamo milioni di turisti da far volare da e verso il nostro Paese. E abbiamo industrie, business. Sarebbe sciocco lasciare ad altri certe enormi potenzialità”, ha dichiarato a Repubblica.it. “Alitalia  è il secondo marchio più noto all’estero dopo la Ferrari. Ecco perché dovremo valorizzarlo e trovare un partner industriale di livello che non abbia interessi di parte. E lo Stato dovrà partecipare con una quota importante e non simbolica, al fianco del futuro acquirente”. Messaggio fin troppo chiaro.

In una nota poi la Lupo ha chiarito l’intenzione di voler “lavorare nei prossimi mesi su soluzioni concrete per il futuro dell’azienda”. Quali? Forse qualcosa potrà aver intuito il ceo di Lufthansa Carsten Spohr che sollecitato dai cronisti sulla questione, apparso di pessimo umore, ha commentato con un secco “oggi non ne parlo”.

 

Alitalia, ecco gli indizi che portano al ritorno dello Stato nella compagnia

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