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Diciamola pure: a mettere l’orecchio a terra come facevano i trapper indiani negli albi di Tex Willer, non è che non si sentissero le galoppate delle tribù pentastellate in direzione ostinata e contraria. Forse qualcuno potrà obiettare sulle proporzioni, ma a questo punto sono quasi dettagli: che i Cinque Stelle – attenzione, ci scopriamo tutti a non chiamarli più grillini, ci avete fatto caso? – fossero attestati intorno al 30% era un’opinione consolidata. Che la Lega fosse in grande spolvero appariva anche all’occhio innocente dell’osservatore distratto. Che, viceversa, il PD non vivesse il suo momento migliore ce l’avevano detto tutti i sondaggisti d’Italia. Dunque non c’è stata la sorpresona in questo voto disperato che – e questo l’avevamo previsto noi dalle colonne di Formiche.net – ha portato alle urne un sacco di italiani, gli stessi del 2013 e, per di più, in una sola fredda giornata senza lunedì.

La questione è che nel vademecum del politico provetto non c’è scritto che cosa si fa nel caso in cui a vincere non è nessuno. Perchè i numeri per un governo coerente non ci sono per nessuno. Non per la destra, che reca un bouquet del 37,3% inutilmente primatista. Non per i Cinque Stelle, con un 32,4 che somiglia alle cifre democristiane della stagione decadente. Né è plausibile che quel 54%, fatto di seguaci di Di Maio, di Salvini e Meloni, possa tradursi in numeri di governo: è un traguardo psicologico che non ci fa grande reputazione in Europa – la maggioranza degli Italiani anti europeista e schiettamente populista – ma è più difficile che si traduca in numeri da maggioranza di governo.

Il voto è stato, peraltro, ideografico. Non possiamo proprio definirlo ideologico, quindi facciamo riferimento solo alla grafica dei partiti presenti nel poroporzionale: l’intuitus personae, infatti, l’identità del candidato nei collegi uninominali, non ha funzionato per niente, cosicché i candidati all’uninominale hanno subito, senza meriti e senza colpe, il destino dei simboli che rappresentavano. Il Pd alla fine ci ha rimesso una manciata di collegi “sicuri” del suo magrissimo bottino maggioritario, consegnati agli alleati Bonino, Socialisti e Lorenzin/Casini, trasfusioni di sangue prelevate direttamente dal popolo democrat. Insomma: una gran gatta da pelare per il Presidente della Repubblica.

Cosa potrà accadere adesso? Non c’è una regola precisa, ovviamente, perché la Costituzione si limita a prevedere che il Capo dello Stato nomini il Presidente del Consiglio (art. 92 secondo comma). La genesi dei 64 governi della Repubblica è varia e flessibile. La prassi non prevede che l’incarico venga dato al partito che ha preso più voti alle elezioni – come avrebbero fatto Spadolini o Craxi ad avere quell’incarico? – ma solo a quella personalità in grado di mettere in piedi una maggioranza nelle due Camere. Certo pur in carenza di numeri vasti, la coalizione di centrodestra registra un vantaggio rispetto agli altri competitors. Potrebbe essere questo un punto di partenza. Una destra a guida leghista? Mah! Va detto, però, che anche nel partito di Salvini ci sono alcune personalità divisive ed altre meno.

Il punto, però, è un altro: i numeri comunque non bastano e occorrerebbe una qualche intelligenza per garantire il varo di un governo di minoranza per fare una legge elettorale il più possibile condivisa e poi tornare al voto in tempi certamente non traumatici, ma ragionevoli. Il quadro istituzionale potrebbe essere completato con l’attribuzione del vertice di una delle Camere ad una consistente opposizione, in chiave di garanzia. Insomma, una specie di governo della non sfiducia stile Andreotti III. E scusate se è poco.

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