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Una crisi alimentare nel 2018, in uno dei Paesi più industrializzati del mondo. Possibile. Gli inglesi un razionamento del cibo se lo ricordano giusto negli anni della seconda guerra mondiale. Ma ora a 73 anni dalla fine del conflitto, c’è la Brexit. Che rischia di far vivere ai sudditi di Sua Maestà l’ennesimo brutto quarto d’ora. Dopo l’effetto domino che sta colpendo molte major britanniche delle costruzioni (qui lo speciale di Formiche.net), adesso l’allarme si sposta sull’alimentare. Col rischio di vedere i supermercati inglesi con gli scaffali vuoti.

L’ALLARME DI SAINSBURY’S

Tutto è partito dal monito lanciato dal ceo di Sainsbury’s, Mike Coupe, intervistato da Bloomberg sugli effetti del post Brexit. L’uscita di Londra dal mercato unico “porterebbe a una mancanza di cibo senza precedenti”, ha spiegato il manager. E questo perché “l’impatto della chiusura dei confini per alcuni giorni alla libera circolazione del cibo comporterebbe una crisi alimentare che non abbiamo mai visto. Per me è inconcepibile che non si sia trovata una soluzione”. Il fatto è che l’uscita del Regno Unito dal perimetro dell’Ue comporterebbe per due o tre giorni alla settimana di stop alla libera circolazione di merci e materie prime alimentari. Il che lascerebbe di fatto sguarnita la grande distribuzione inglese, abituata da quasi 50 anni di mercato unico europeo.

QUANDO L’IMPORT E’ UN PROBLEMA

Bloccare la libera circolazione di prodotti alimentari rischia di mettere seriamente in pericolo l’approvvigionamento in un Paese che vive di import, complice la sua natura multietnica frutto di secoli di dominio coloniale nel mondo. Oggi quasi la metà del cibo consumato nel Regno Unito viene importata e le barriere commerciali sarebbero particolarmente dannose per i rivenditori britannici di prodotti alimentari freschi. Nel 2016, il Regno Unito ha importato 22,4 miliardi di sterline (pari a circa 30,8 miliardi di dollari) di carne, pesce, latticini, frutta e verdura, secondo il Dipartimento per l’ambiente, l’alimentazione e gli affari rurali. Secondo quanto rende noto Bloomberg, gli addetti al porto di Dover, il più trafficato della nazione, stimano che altri due minuti in più per liberare i camion alla dogana porterebbero addirittura a ingorghi stradali per 17 miglia (27 chilometri).

L’IMPENNATA DEI PREZZI

Appare chiaro dunque come all’interno dei negoziati per la Brexit debba essere necessariamente inserito un accordo per far cadere le barriere doganali in quei giorni della settimana per i quali è previsto il blocco della libera circolazione delle merci. Perché importare prodotti alimentari potrebbe costare molto di più, con conseguente aumento dei prezzi allo scaffale.  “Al momento importiamo pomodori con i camion provenienti dal sud della Spagna, guidano per 24 ore e arrivano direttamente nei nostri centri di distribuzione senza ingombri. Mettendo un ostacolo a questo flusso si andrà incontro ad un aumento del costo e anche delle freschezza dei prodotti”, attacca il manager Sainsbury’s.

BREXIT IN ALTO MARE

L’intesa comunque appare lontana e a nulla valgono, per ora, le paure della grande distribuzione. L’accordo sulla Brexit rischia di rallentare ancora, visto che la premier britannica Theresa May ha infatti rigettato la proposta di Michel Barnier, il caponegoziatore comunitario, che ha presentato la prima bozza del trattato di divorzio con Londra, secondo cui l’Irlanda del Nord, parte del Regno Unito, potrà restare nell’unione doganale dell’Ue anche dopo la Brexit. La May ha reagito fermamente, affermando che Londra non accetterà mai un accordo con l’Europa che possa compromettere l’integrità costituzionale del Regno Unito. “La bozza di accordo pubblicato dalla Commissione, se attuato, minerebbe il mercato comune britannico e metterebbe a rischio l’integrità costituzionale del Regno Unito, creando un confine doganale e regolamentare nel Mare d’Irlanda e nessun primo ministro britannico potrebbe mai accettarlo”.

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