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La visita di stato francese a Washington segna un passaggio nell’equilibrio interno dell’intesa atlantica? Cambierà gli equilibri in Europa? E nella Nato? Ci sono indizi, quanto meno, che dicono che Stati Uniti e Francia in questo momento hanno una relazione diretta e privilegiata che potrebbe significare qualcosa anche per l’Europa.

Innanzitutto c’è il rapporto personale tra i due presidenti: Emmanuel Macron e Donald Trump sono accomunati dall’essere “due maverick del sistema”, come il francese ha detto durante un’intervista a Fox News. La loro vittoria elettorale era inattesa, ha spiegato Macron, e per questo forse c’è intesa. Certo, non amicizia, spiegano alcuni analisti, non è un bromance: Macron ha semplicemente capito che per la Francia è bene accettare qualche compromesso con Trump e sfruttare il campo libero per consolidare l’intesa e rafforzarsi anche davanti agli altri Paesi europei.

Campo libero, appunto. Il rapporto personale nell’azione di governo trumpiana è fondamentale, e se con Macron c’è, non si può dire altrettanto nel caso di Angela Merkel. Il primo incontro con la Cancelliera tedesca è stato segnato dalla famosa non-stretta-di-mano, ma soprattutto anche in questo caso c’è del pragmatismo (da parte di Trump). La leader tedesca che andrà a Washington il 27 aprile è molto meno forte, solida, potente, di com’era tempo fa: la sua è una leadership da ricompattare, un affare interno che non interessa a Trump.

E lo stesso vale per Theresa May, altra leader impicciata con questioni interne – la Brexit, per quanto sia possibile considerarla un affare solo inglese – e poi gli inglesi hanno chiesto in modo non troppo polite di annullare la visita di Trump per evitare troppe msnifestazioni di protesta. E allora, anche davanti al silenzio assordante dell’attuale vuoto italiano, per gli Stati Uniti non resta che usare la porta francese per entrare in Europa.

C’è intesa, c’è pragmatismo, c’è contesto. Ed è possibile che, in questa fase in cui tre dei paesi leader europei sono impegnati in turbolenze interne, Parigi acquisisca per riflesso un ruolo di riferimento ancora maggiore nel processo di governo Ue.

Nei fatti, poi, la collaborazione tra Francia e Stati Uniti in questi ultimi anni s’è consolidata soprattutto in ambito militare – e qui Macron ha ereditato la situazione. Uno dei pesi più gravanti sentiti da Washington è proprio l’impegno militare quasi esclusivamente personale che gli Stati Uniti hanno messo in campo su diversi fronti caldi. Per questo gli americani pressano gli alleati, soprattutto i membri Nato, a raggiungere gli obbiettivi congiunti fissati – il 2 per cento di Pil in investimenti militari – ma anche e soprattutto a essere parte attiva nelle missioni internazionali.

I francesi, così come i tedeschi (e gli italiani), non rispettano l’obiettivo del 2 per cento, ma hanno progettato un piano esplicito per raggiungerlo – una mossa politica a cui Macron ha dato molto risalto – e soprattutto si sono rivelati negli ultimi tempi alleati affidabili e attivi.

C’è un doppio fine in queste attività progettate da Parigi, perché la Francia di Macron fa del globalismo e dei doveri internazionali un elemento chiave per seguire l’interesse nazionale. Per esempio, quando tratta con Trump (apparentemente senza grossi successi, viste le dichiarazioni) il dossier riguardante l’accordo sul nucleare iraniano, non si muove per il semplice mantenimento dell’intesa multilaterale, ma fa contemporaneamente l’interesse delle aziende francesi che vedono nell’Iran un’enorme opportunità economica e soprattutto cerca di intestarsi la soluzione di grane globali importantissime in modo da far crescere il proprio nome e quello di Parigi in cima alla lista degli attori internazionali.

Però, Macron interloquisce con Trump, cerca soluzioni (colpire il programma dei missili balistici, per esempio), Merkel, May, o Roma, no. Si limitano a una reazione passiva, critica, detestata da un artista del deal come il Presidente americano.

Ancora, restando nel concreto. La Francia ha piazzato un contingente militare nel Sahel da diversi anni, e Macron ha rafforzato l’operazione. A Trump piace questo impegno diretto – in cui ha coinvolto pure la Germania, con limitazioni impostegli – perché gli permette di mantenere presa su un dossier delicato; l’Africa sahariana è un enorme bacino colturale del terrorismo, è piena di traffici illeciti, ma è anche un’area da coltivare per certe risorse. E può farlo senza un grosso impegno diretto.

Francia e Stati Uniti collaborano militarmente in una regione dove Parigi sfrutta questa partnership per giocare il proprio peso storico colonialista, la propria influenza, e Trump vede l’assertività francese come un’opportunità di disimpegno. Washington controlla da vicino (gli americani hanno unità in diversi Paesi dell’area, Niger, Mali, Ciad, ma anche Libia, Tunisia), lasciando più spazio agli alleati.

Queste partnership sono particolarmente apprezzate da Trump. Ancora: i francesi hanno da subito sposato attivamente l’impegno contro lo Stato islamico. E, ancora un volta, l’hanno fatto secondo il proprio interesse: i Rafale e Mirage dell’aviazione francese non martellavano tanto quanto i caccia americani il Califfato, tanto che Washington fece anche un richiamo abbastanza esplicito a Parigi un paio d’anni fa, ma le unità sul campo erano iper-operative. Erano, e sono ancora attivi, killing team che hanno accompagnato sul campo le forze curdo-arabe nel nord siriano e quelle irachene contro i soldati del Califfo con un obiettivo molto chiaro: eliminare i foreign fighters francesi prima che tornassero in patria a compiere altri attentati (ancora una volta, l’interesse nazionale abbinato all’impegno internazionale e al supporto agli sforzi americani).

Anche l’azione congiunta contro il regime siriano in rappresaglia per l’attacco chimico di Douma segue questo trend. Parigi ha subito sposato l’idea di un’azione militare americana, anzi Macron è stato il primo a darne sostanza dicendo che l’intelligence francese aveva prove solide per accusare Bashar el Assad di aver gasato i suoi cittadini. La Francia s’è allineata prima del Regno Unito, come già successo nel 2013, quando il governo Hollande diede disponibilità all’amministrazione Obama per colpire Assad per una vicenda simile – di dimensioni ben più grandi, a Ghouta.

Poi s’è allineata Londra, che non poteva star ferma visto il sostegno ricevuto subito da Stati Uniti e Francia sul caso Skripal. E Parigi ha di nuovo guidato gli europei su entrambi i dossier, di sponda con Washington.

Si potrebbe dire che di tutto quello che Macron ha raggiunto in quasi un anno come presidente francese, il risultato più importante potrebbe essere il suo avvicinamento a Trump. Che però è più una questione pragmatica che sostanziale: Macron e Trump sono distanti su diversi argomenti importanti, come il climate change o il commercio, o l’accordo con l’Iran. Ma il francese è riuscito a trovare la chiave con cui trattare il nuovo inquilino della Casa Bianca, che adesso considera Parigi l’accesso all’Europa.

 

 

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