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La guerra al terrorismo internazionale potrebbe avere nell’immediato futuro uno scenario ampio e difficile: l’Africa tra Sahara e Sahel. La sconfitta militare dell’Isis in Siria e in Iraq non ha solo causato movimenti incontrollati di foreign fighter verso altri teatri come l’Afghanistan e verso i Paesi di provenienza, ma sta facendo spostare il baricentro verso aree africane tradizionalmente instabili e quindi più ricettive rispetto all’ideologia jihadista. Una situazione solo apparentemente lontana dall’Europa e che è invece centrale per le prospettive di sicurezza dell’Occidente.

Due reportage dell’Economist fotografano uno scenario in evoluzione e sollecitano gli Stati Uniti e i Paesi europei ad affrontarlo con decisione. L’Iswap, Islamic State West Africa Province, è un gruppo jihadista della Nigeria affiliato allo Stato islamico, conta circa 3.500 combattenti e sta cercando di costruire un embrione di Califfato in località di confine come Maiduguri, la principale città nord-orientale dove nacque Boko Haram e dove si incrociano due diverse rotte al centro di intense campagne jihadiste: una tende verso il Mediterraneo toccando Egitto, Libia, Tunisia e Algeria, l’altra dalla Somalia e il Kenya arriva fino al Mali passando per Nigeria e Niger. Secondo il generale Mark Hicks, comandante delle forze speciali americane in Africa, è in corso una guerra contro il più grande gruppo affiliato all’Isis al di fuori di Iraq e Siria che sta impegnando truppe di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Germania.

La Francia da alcuni anni è impegnata nell’Operazione Barkhane con circa 4.500 uomini e nonostante il suo comandante, generale Bruno Guibert, sostenga che le cose vanno meglio, un anonimo ufficiale francese ha ammesso con l’Economist che senza aumento di truppe la sconfitta è certa. In quella fascia africana, oltre a Boko Haram, ci sono diversi gruppi affiliati all’Isis, al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim) e gruppi legati al qaedismo fino ad al Shabab in Somalia. La situazione è tale che a Maiduguri i cittadini hanno creato una milizia procurandosi armi di ogni tipo e creando la Cjtf (Civilian Joint Task Force), 26mila uomini il cui comandante, Abba Kalli, ha parlato di foreign fighter provenienti dal Mali e dalla Libia andati a rinforzare le truppe dell’Iswap.

L’Occidente deve continuare ad addestrare le truppe e aiutare in ogni modo quei governi, anche se l’agguato avvenuto in Niger nell’ottobre scorso sta cambiando i piani statunitensi. L’Isis in the Greater Sahara (Isis-GS), che dal maggio scorso è considerata dagli Stati Uniti ufficialmente un’organizzazione terroristica, uccise quattro Berretti verdi e cinque soldati nigerini in un’operazione mal pianificata e approvata perché considerata a basso rischio. Si trattò della più grande perdita di militari statunitensi in Africa dai tempi della strage di Mogadiscio nel 1993, con 18 vittime, da cui fu tratto il film “Black Hawk Down”. L’America ha oggi circa 6mila uomini in Africa impegnati soprattutto nell’addestramento e nel supporto degli eserciti locali, ma dopo l’agguato dell’ottobre 2017 sembra che il presidente Donald Trump non consideri prioritaria quell’area del mondo e il Pentagono all’inizio di quest’anno ha ordinato ad Africom (il comando responsabile per l’Africa con sede a Stoccarda) di pianificare un possibile dimezzamento delle forze speciali entro tre anni. Nell’inchiesta del settimanale britannico si paragona l’intenzione di Trump all’errore commesso da Bill Clinton quando ritirò le truppe americane dopo i fatti di Mogadiscio: la Somalia collassò e divenne “un paradiso per jihadisti e pirati”.

Tutto questo riguarda direttamente l’Europa e l’Italia più di quanto si pensi. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha confermato l’intenzione di recarsi presto in tutti i Paesi del Nord Africa dopo essere stato in Libia e il 30 luglio è fissato il vertice tra Trump e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Sono indispensabili interventi coordinati sia finanziari che tecnico-militari per combattere il terrorismo in quelle zone e per aiutare quei governi: a questo proposito, è ancora in fase di stallo la missione italiana in Niger. In un recente report del Cesi, il Centro studi internazionali, si spiegava che l’area occidentale del Fezzan (l’ampia regione della Libia meridionale) è “la più instabile e pericolosa della regione a causa della presenza della principale direttrice africana per i traffici illeciti lungo la quale si sono saldati i rapporti tra le milizie etniche e i gruppi terroristici dell’area sahelo-sahariana”. In quell’area c’è la città di Ghat, dov’era prevista una missione tecnica italo-libica nelle scorse settimane poi rinviata e dove si ipotizzano campi per la Guardia di confine libica.

Traffici illeciti, terrorismo, immigrazione sono indissolubilmente legati. Il generale Hicks paragona la crescita del jihadismo in Africa con quella dei Talebani nell’Afghanistan del 1993: così com’è importante non abbandonare l’Afghanistan per la sicurezza di tutti nonostante sia chiaro da tempo che quella guerra non sarà vinta, allo stesso modo in Africa non si può correre il rischio di perdere il controllo di regioni immense con effetti immaginabili. Anche lì non saranno sufficienti le operazioni militari se non accompagnate da adeguati investimenti e addestramento, purché ci si renda conto che il jihadismo (Isis, al Qaeda o altri) non è certo finito con la sconfitta in Iraq e Siria.

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Perché la crescita del jihadismo in Africa riguarda l'Italia più di quanto si pensi

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