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Non c’è stata nessuna presa di posizione ufficiale, ma il dubbio aleggia e c’è già la fila di alti ufficiali, generali, esperti e politici che si chiedono cosa voglia fare davvero delle nostre missioni all’estero il governo gialloverde. Domanda lecita, tanto più se fino ad oggi sul tema Lega e Cinque Stelle hanno preferito glissare. Un paragrafetto del contratto per il “governo del cambiamento” si limita a ritenere “opportuno rivalutare la presenza dei contingenti italiani nelle singole missioni internazionali geopoliticamente e geograficamente, e non solo, distanti dall’interesse italiano”. Di quali missioni parliamo? Kosovo, Libano, Afghanistan? Dagli Stati Uniti giungono voci preoccupate per un eventuale ritiro degli italiani da Kabul. Qualcuno però la pensa diversamente: “ma quale ritiro dalle missioni internazionali, queste sono voci messe in giro da chi ha paura e ultimamente è un po’ nervoso”. A parlare è Edward Luttwak, economista e politologo americano, già stratega militare della Casa Bianca. “Le missioni non sono fatte per durare a oltranza, rivalutarle non significa necessariamente abbandonarle” spiega ai microfoni di Formiche.net.

Dal Maryland Luttwak ha seguito con attenzione i rumors sulla neoministra della Difesa Elisabetta Trenta e non nasconde la sua irritazione: “L’hanno descritta come una fanatica anti-occidentale ma non ha mai dato prova di esserlo”. Voci infondate, come infondati, ci spiega lo stratega, sono i timori di un radicale cambio di direzione della politica estera italiana con il governo Conte. “Non ci sarà nessuna virata brusca. L’unica eccezione è il tentativo di migliorare i rapporti con la Russia riducendo le sanzioni. Una mossa che può trasformarsi in un gravissimo problema se rimane una soluzione unilaterale. Diverso è se diviene il frutto di una posizione diplomatica perseguita con cura, convincendo gli americani e gli europei della bontà dell’iniziativa”.

A dire il vero gli alleati d’oltreoceano hanno già fatto trapelare, sia pur velatamente, un certo disappunto sull’incerta collocazione del governo gialloverde nello scacchiere internazionale. Il Movimento Cinque Stelle ha rassicurato più volte Washington sulla fedeltà all’Alleanza Atlantica del governo appena nato. La Lega, che è legata al partito di Vladimir Putin da un accordo informale, non nasconde invece di voler recuperare un rapporto franco con Mosca. Luttwak però rassicura: “Non c’è nessun nervosismo a Washington. Gli americani si occupano da sessant’anni di diplomazia europea, conoscono il mestiere della diplomazia multilaterale e hanno saputo interloquire con tutti”. “L’alleato italiano più fedele agli Stati Uniti negli ultimi venti anni è stato un ex comunista come Massimo D’Alema quando era presidente del Consiglio, figuriamoci se Salvini può essere un problema” chiosa Luttwak divertito. “Gli unici italiani che gli americani temono sono i centristi, perché subiscono l’influenza della Chiesa cattolica e quando scoppia una guerra sono i primi ad abbandonarti a metà del guado” continua il politologo.

Quanto alle missioni internazionali, non serve fantasia per conoscere il pensiero di Luttwak. Lo aveva chiarito con sufficiente chiarezza in uno dei suoi libri più celebri, “Give war a chance”, “Date una possibilità alla guerra”. Intervenire in situazioni di crisi per proporre un armistizio, avviare la ricostruzione umanitaria e perfino riappacificare le fazioni in guerra quasi sempre aggrava la situazione, scriveva Luttwak sul finire degli anni ’90. A giudicare dai commenti tranchant sulle missioni italiane sembra proprio che non abbia cambiato idea. Il giudizio sulla tanto discussa missione in Niger, ad esempio, è impietoso: “Il Niger ormai è territorio francese. Sarei felice se andassimo via senza farvi più ritorno. Vede, io sono uno di quegli americani, fra cui rientra anche Donald Trump, che vorrebbe smetterla di inseguire fino ai confini del mondo Ahmed e Mahmoud, lasciamoli cucinare nel loro brodo”. Non può bastare un contingente di militari italiani a fermare i flussi migratori africani, spiega Luttwak. “Troveranno comunque un’altra rotta. L’unica soluzione è fermarli al confine e rispedire indietro i clandestini. L’Australia lo fa da sempre ma nessuno la considera un Paese razzista o autoritario”.

Anche la Libia è una partita persa, a sentire lo stratega. Il blitz del presidente francese Emmanuel Macron per riunire il generale Haftar e al-Sarraj all’ombra dell’Eliseo non ha sortito gli effetti sperati. Gli Stati Uniti, dal canto loro, “rimangono spettatori passivi degli eventi, non vogliono inviarci un soldato né spenderci una lira”. Difficile dunque che l’Italia possa riuscire da sola a cambiare le sorti di un Paese lacerato. “In Libia c’era un uomo forte che governava, ora ci sono 100 tribù. È un Paese tribale, dobbiamo lasciare che la storia curi le ferite. L’idea di uno Stato libico esiste soltanto nella nostra immaginazione”.

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