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Se si esamina la distribuzione dei seggi alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica, risulta ben evidente, ai fini della formazione di un’ipotetica maggioranza, la collocazione strategica di due forze politiche: il Pd da un lato, la Lega di Matteo Salvini dall’altro. Entrambe costituiscono una sorta di ago della bilancia, in grado di determinare la formazione di qualsiasi governo. Le altre componenti delle due coalizioni di centrodestra – Forza Italia e Fratelli d’Italia – hanno una collocazione, per così dire, statica. Possono, cioè, rimanere solo all’interno del proprio schieramento. Qualora, infatti, si formasse una coalizione di centrodestra, con l’appoggio del Pd, e Fratelli d’Italia decidesse di non farvi parte, vi sarebbe comunque una maggioranza possibile, seppure ridimenzionata nel numero dei componenti. Al contrario il mancato apporto della Lega a questa possibile soluzione, porrebbe fine a qualsiasi ipotesi.

Sul fronte avverso – quello dominato dai 5 Stelle – le varianti possono essere diverse. In teoria sono possibili due diverse combinazioni: sia con la Lega che con il Pd. Cambierebbero i numeri, ma la maggioranza vi sarebbe comunque. A condizione, tuttavia, che, nel secondo caso, questa soluzione fosse accettata se non da tutto il Partito democratico almeno dai due terzi dei componenti dei rispettivi Gruppi parlamentari. Problema che, nel caso dell’opposta soluzione (maggioranza con la Lega), comporterebbe minori problemi. I margini, in questo secondo caso sarebbero maggiori e quindi il peso di un’eventuale dissidenza molto più circoscritto.

Fin qui la semplice aritmetica, poi c’è la politica. O meglio: questa viene prima del calcolo ragionieristico. Ed è molto più complicata. Finora il mantra è stato: occhio ai programmi. Se sussistesse una convergenza programmatica – dicono all’unisono Salvini e Di Maio – si può vedere. Ma questo è solo un corno del dilemma. Peraltro tutt’altro che facile da afferrare. In un Paese spaccato a metà, come hanno mostrato i risultati elettorali, i due partiti rappresentano i due poli del dilemma. Ad un Nord insofferente, per l’eccesso di carico fiscale e di burocrazia, si contrappone un Sud che vuole essere rassicurato da una maggiore assistenza e quindi da una presenza ancora maggiore degli ingranaggi dello Stato. Anche se i 5 Stelle hanno annacquato molto le loro parole d’ordine originali. Di “salario di cittadinanza” si parla sempre meno, in un più generico accenno alla necessaria lotta contro la povertà. Sarà, quindi, possibile una qualche forma di alleanza? C’è, poi, il tema degli immigrati: nemmeno in questo caso le posizioni sono convergenti. Visto che al Sud il grande arcipelago dell’economia sommersa offre a questi ultimi approdi meno traumatici per il resto della popolazione.

Solo che i nodi tornano al pettine nel momento in cui si dovrà discutere del futuro Presidente del Consiglio: sempre che si arrivi a questo appuntamento. I pretendenti, entrambi determinati, sono due. Chi vincerà la partita? Logica vorrebbe che, alla fine, si scelga una terza persona. Ma nemmeno questa soluzione risolve tutti i problemi. I rapporti di forza tra le due formazioni politiche sono quelli che sono. Il numero dei seggi della Lega, tanto alla Camera che al Senato, sono poco più della metà dei 5 Stelle. Salvini quindi, al più, può essere solo un socio di minoranza della futura compagine governativa. È disposto a correre il rischio di mettere in discussioni alleanze consolidate a livello regionale (Liguria, Veneto e Lombardia), quale riflesso della rottura della coalizione di Centro destra?

Rischi di questa natura si possono correre solo se il piatto è ricco. Ed allora la vera posta in gioco può essere esclusivamente quella di possibili nuove elezioni. Tanto più che agli inizi del prossimo anno si dovrà votare per il rinnovo del Parlamento europeo. Il “nuovo” contro il “vecchio”: questa può essere la carta in mano ai due opposti schieramenti, in un nuovo equilibrio bipolare segnato dalla preminenza di Lega e 5 Stelle e la definitiva marginalizzazione dei protagonisti di quella che fu la Seconda Repubblica. Prospettiva cui guardare con una certa cautela: di mezzo c’è l’Europa, i mercati, la fine del quantitative easing e via dicendo.

In questo caso, la formula possibile potrebbe essere quella di un “governo di scopo”. Ma per evitare che questa diventi solo una foglia di fico, è necessario una sua qualificazione. Dario Franceschini ha proposto di rimettere mano alle riforme costituzionali. Legge elettorale ed abolizione del Senato. L’ipotesi ha una sua logica. La Seconda Repubblica è sostanzialmente fallita a causa del contrasto tra una legge elettorale, sostanzialmente bipolare, ed un impianto costituzionale di tipo proporzionale. Ricomporre questa frattura potrebbe essere il definitivo tramonto di una passata transizione infinita.

Lo schema, tuttavia, in questo caso è destinato a complicarsi ulteriormente. Nella storia italiana, la Costituzione fu varata in presenza di un governo ch’era espressione di tutti i partiti antifascisti. Iniziò con Ferruccio Parri, nel giugno del 1945 e terminò con il secondo Alcide De Gasperi due anni dopo. La base parlamentare si estendeva dalla Dc al Pci. Può essere un esempio da seguire nel cosiddetto “governo di tutti”? Non sapremo dire. Meglio, allora, affidarsi ad Alessandro Manzoni: ai posteri l’ardua sentenza.

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