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Proseguono le turbolenze innescate dall’annuncio con cui Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. Oggi molto probabilmente il Consiglio di Sicurezza dell’Onu metterà ai voti una risoluzione egiziana che condanna la decisione del presidente americano, dichiarandola “nulla e vuota”. Ma la bozza, circolata nel fine settimana nelle mani dei rappresentanti dei quindici paesi rappresentati nell’organismo di New York, è stata redatta con linguaggio blando, al fine di evitare di incorrere nel comunque probabile veto americano: una cautela che tradisce la volontà di non infastidire troppo le manovre della Casa Bianca, che a gennaio annuncerà il suo piano di pace per la Palestina.

La bozza, che è stata visionata dall’Afp, dichiara che “ogni decisione e azione che mira ad alterare il carattere, lo status o la composizione demografica della Città Santa di Gerusalemme non ha alcun effetto legale” e “deve essere annullata in accordo con le pertinenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza”. Si chiede inoltre agli stati di astenersi dall’impiantare missioni diplomatiche a Gerusalemme, atto che rappresenterebbe una violazione della legge internazionale.

Il testo tuttavia non menziona esplicitamente gli Stati Uniti, limitandosi ad esprimere “rammarico per le recenti decisioni sullo status di Gerusalemme”. Un espediente dietro cui al Jazeera intravede la mano di Londra, non meno timorosa del Cairo di suscitare l’ira di Washington e di far scattare la tagliola del veto.

Chi non teme il muro contro muro con gli Stati Uniti è invece Recep Tayyip Erdogan. Che ha fatto sapere che, in caso di bocciatura, la risoluzione passerà all’Assemblea Generale, che potrà votarla a maggioranza semplice. Ieri inoltre il presidente turco ha annunciato che la Turchia aprirà a Gerusalemme un’ambasciata. “Se Dio vorrà”, ha tuonato davanti ai membri del suo partito nella città di Karaman, “è vicino il giorno in cui ufficialmente, col permesso di Dio, apriremo la nostra ambasciata là”.

Sin dal giorno dell’annuncio di Trump, il presidente turco ha tentato di capitalizzare la rabbia musulmana. Su sua iniziativa, i 57 paesi dell’Organizzazione della Conferenza islamica si sono riuniti a Istanbul mercoledì scorso per annunciare il loro dissenso nei confronti della mossa trumpiana. Ma il tentativo di Erdogan di unire la umma islamica si è infranto davanti alla riluttanza dell’Arabia Saudita e di un’altra trentina di paesi, che a Istanbul non hanno mandato il proprio capo di stato o di governo ma un semplice membro di gabinetto.

Non tutti, insomma, si schierano senza condizioni dalla parte del presidente palestinese Mahmoud Abbas. Che ieri, attraverso il suo consigliere diplomatico Majdi al-Khalidi, ha fatto sapere nuovamente di non considerare più gli Stati Uniti come mediatore di un nuovo negoziato con Israele. “La dichiarazione del presidente” Abbas “è auto-esplicativa”, ha detto Khalidi, ricordando le parole di fuoco pronunciate dal capo dell’Autorità palestinese a Istanbul. “Non incontreremo alcun esponente dell’amministrazione americana”, ha aggiunto Khalidi, “per discutere la pace tra palestinesi e israeliani, perché il presidente è stato molto chiaro su questo”. Il riferimento è a Jason Greenblat, inviato della Casa Bianca per il processo di pace, che questa settimana sarà in Israele. Khalidi precisa comunque che nemmeno Greenblat ha chiesto di parlare con Abbas: d’altronde “lui sa che non ci sarà alcun incontro, anche se lo chiedesse”.

Ieri frattanto in Indonesia 80 mila persone sono scese in piazza per protestare contro la decisione americana. “Sollecitiamo tutti i paesi” – ha dichiarato il segretario generale del Consiglio degli Ulema indonesiani, Anwar Abbas – “a rigettare la decisione unilaterale e illegale del presidente Donald Trump con cui ha fatto di Gerusalemme la capitale di Israele”.

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