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La borsa di Tokyo risponde con oltre il due per cento di perdita (Toyota scende del due, la Nippon Steel del quattro), mentre il gigante sudcoreano Posco ha perso 3 punti secchi, dopo che anche Wall Street aveva chiuso in negativo, a poche ore dall’annuncio che il presidente americano Donald Trump ha fatto a un gruppo di industriali (presenti i vertici di US Steel Corp e Arcelor Mittal) sui dazi commerciali che applicherà per le importazioni di acciaio e alluminio, nell’ottica di uno “Smart Trade”, come lo chiama il Prez.

Le misure nello specifico saranno rese pubbliche la prossima settimana, ma la decisione era nota, e attesa da tempo: il settore è considerato uno di quelli più colpiti dalle operazioni illegali di dumping – quelle per cui un bene esportato viene venduto dai paesi esportatori a prezzi inferiori di quelli del mercato interno – e dunque un presidente che tiene sul target la “prosperità” economica americana attraverso l’America First non poteva tirarsi indietro dall’azione (tra l’altro il comparto industriale dell’acciaio dal 2000 al 2016 ha perso qualcosa come cinquantamila dipendenti).

Le misure, che andranno dal 25 al 10 rispettivamente su acciaio e alluminio, non sono selettive, perché a tutti gli effetti sarà introdotta una nuova tassa su qualsiasi spedizione di metalli destinata agli Stati Uniti con cui verrano colpite le importazioni in sé e non quelle da un paese specifico (perché, secondo quanto riporta il New York Times, Trump avrebbe spiegato che anche lasciarne soltanto uno in condizioni facilitate, significherebbe trovarsi bussare alla porta americana tutti gli altri che vorrebbero uguali misure e trattamenti).

L’analisi della notizia vede la Cina come la nazione più colpita, anche perché la mossa di Trump è stata accompagnata da una fase di densa retorica e politica anti-cinese, ma la Reuters fa notare che Pechino ha un commercio di acciaio e alluminio con gli Stati Uniti relativamente limitato, soprattutto perché l’export cinese era stato già frenato da misure anti-dumping alzate dall’amministrazione precedente.

Come già successo per l’azione analoga su fotovoltaico e lavatrici, finiscono invece nella rete paesi partner: ancora una volta subisce le conseguenze la Corea del Sud, insieme ad altri alleati americani tra cui alcuni stati europei, tanto che il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, ha dichiarato che migliaia di posti di lavoro in Europa potrebbero finire a rischio e fatto capire che Bruxelles potrebbe ricorrere a contromisure.

Anche il Canada ha reagito duramente: il paese è il principale fornitore di acciaio e alluminio per gli Stati Uniti (ed è anche uno dei membri del Nafta, l’accordo commerciale criticatissimo da Trump), e il ministro del Commercio ha già definito la decisione “inaccettabile”, mentre da gli Esteri Ottawa fa sapere che il governo canadese potrebbe applicare misure di ritorsione (linee simile sono uscite da Messico e Brasile, altri tra i principali esportatori di metalli negli Usa, che hanno annunciato reazioni “multilaterali o bilaterali” per difendere i propri interessi).

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Non è chiaro quanto questi danni collaterali siano conseguenza necessaria e sostenibile per Washington, oppure quanto l’amministrazione statunitense voglia allargare il cerchio dei bersagli, attaccando con più peso retorica la Cina – rea di avere con gli Stati Uniti un comportamento commerciale scorretto, accusa l’amministrazione – ma includendo tra le vittime paesi amici che rientrano comunque nel novero di coloro che Trump considera delle sanguisughe nei confronti dell’America (non è assurdo pensare che già nel caso del fotovoltaico, con la Corea del Sud, andò così, visto i non eccezionali rapporti tra i due presidenti, i precedenti moniti di Trump, lo sbilancio non solo commerciale in una partnership strategica quanto costosa per gli americani).

Il fronte d’opposizione non viene solo dall’esterno però, perché ci sono diverse multinazionali americane che non ritengono la decisione giusta (tra queste, alcune del settore automotive, che è invece stato uno dei bacini elettorali per Trump), e perfino il dipartimento della Difesa la considera una mossa che potrebbe comportare problematiche di sicurezza per gli Stati Uniti.

Dal canto suo, Pechino ha vissuto l’annuncio con autocontrollo: ci sono stati commenti duri e qualche denuncia sui media del regime necessario espediente propagandistico, ma per il momento il governo cinese non ha alzato misure di tit-for-tat, ossia risposte dello stesso genere contro gli Stati Uniti (la Cina aveva fatto sapere nelle scorse settimane che le importazioni di automobili americane sarebbero state le prime a finire sotto l’ascia delle contromisure del Dragone, se le azioni di Trump fossero state ritenute troppo eccessive).

Per il momento, il portavoce del ministero degli Esteri ha adottato la strategica linea armoniosa cinese, sottolineando che la decisione è irresponsabile perché “se tutti facessero come gli Stati Uniti ci sarebbero seri impatti sul commercio mondiale”. È una postura pianificata, con cui la Cina vuole costruirsi il ruolo di riferimento, stabile e stabilizzatore, degli affari globali. Più duro, nell’ottica del bastone e carota, il vice segretario generale della China Iron and Steel Association, che ha detto che l’impatto sulla Cina della mossa americana non dovrebbe grande, aggiungendo: “Su Trump non possiamo farci nulla, ma siamo già insensibili a lui”. (Tra pochi giorni il principale advisor economico della presidenza cinese, il potentissimo Liu He, sarà a Washington per incontri di alto livello).

 

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