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Nei convegni dove ho la possibilità di esprimere il mio pensiero continuo ad affermare un principio che seppur banale continua a non trovare residenza nella politica in generale e, ancor meno, in quella che definiamo “attiva”: il “problema” giovani. Con esso intendendo principalmente l’enorme percentuale di disoccupati, inoccupati e nullafacenti, che non si risolve con le “norme”!

Nei dibattiti si assiste sempre allo stesso show, ossia: decreti, disegni di legge, stanziamenti, e così via, nonché la creazione di apparati e strutture più o meno grandi che dovrebbero aiutare, fare, costruire, e via proponendo. Sarebbe sufficiente constatare il continuo fallimento di un simile modo di operare – credo indubitabile – per comprendere che manca un pezzo. Ritengo che il pezzo mancante sia la “cultura” ma intesa nel più ampio significato possibile. Non solo “formazione”. La cultura che crea una società che condivide dei principi e dei percorsi comuni. La cultura che dovrebbe “utilizzare” il progresso e non subirlo, dovrebbe controllarlo perché si realizzi il “bene comune”. Insomma, quella cultura che tende ad integrare e non emarginare.

Al contrario, in questi anni abbiamo assistito allo sgretolamento del senso civile e comune in favore di un individualismo esasperato. Gli effetti sociologici sono sotto gli occhi di tutti e l’incapacità di reazione dell’attuale classe dirigente ne costituisce la chiara conferma. Anche la forbice della data di nascita per definire i “millenials” non è comune. Per comodità mi rifaccio ad un recente articolo pubblicato sull’Internazionale che ricomprende nei “Millenials” i nati tra il 1980 e il 2000. L’autore – vi dirò alla fine di chi si tratta – osserva curiosamente come questi giovani pur essendo la generazione in assoluto più istruita della storia, istruzione che pertanto avrebbe dovuto garantire loro vantaggi, agiatezza e quant’altro, risulta essere la generazione messa peggio di genitori e nonni. Attenzione! Non siamo in Italia. Siamo nei Paesi Bassi, e più precisamente in Olanda. Roba da non credere. Anche qui, però, la risposta che tutto dipende dalla crisi finanziaria, dalla robotizzazione, dalla globalizzazione non convince e, soprattutto, non può essere soddisfacente.

Si prendono in considerazione solo elementi numerici, di mercato, normativi e manca la parte più importante: l’aspetto sociale, l’uomo, la solidarietà, la responsabilità sociale. La risposta asettica di tutto il mondo moderno sembra essere: “ci dispiace! Adesso non c’è più trippa per gatti… fatti vostri”!

Questa è la fotografia corretta, una foto che ci fa capire l’assenza di un ragionamento comune, dove il pensiero collettivo è rivolto anche alle generazioni future, generazioni che devono essere messe nelle condizioni di godere di ciò che è stato prodotto proprio per far sì che s faccia anche loro qualcosa per il futuro. Senza questo senso di responsabilità il meccanismo si blocca; si distrugge il senso collettivo ed ognuno andrà per la propria strada. La correttezza del ragionamento è confermata proprio dall’essere una situazione presente in quei Paesi dove lo Stato è decisamente presente, il senso civico e la democrazia sono portati ad esempio nel resto del mondo. Quindi? Il tema è generazionale (i cinquantenni / sessantenni), una generazione che ha un problema con il senso di responsabilità sociale.

Ed anche le critiche avanzate ai “millenials” non tengono conto delle responsabilità delle generazioni di cui questi sono il prodotto. Credo che sia proprio qui il nocciolo del tema, un momento nel quale si è abdicato a tutto in nome del “mercato”. La massimizzazione del profitto, l’eliminazione dei “tempi morti”, l’organizzazione esasperata, tensioni non sempre criticabili, o meglio, non criticabili se volte ad ottenere e creare un mondo migliore, una vita migliore, una società migliore. Ma non vi è chi non veda che non sta funzionando così. Non è eliminando l’ora di “teatro”, inserendo “cibernetica ed insalate di matematica” (cit.!), che si risolvono i problemi sociali, ma devono essere affrontati diversamente, con la costruzione o ricostruzione di una “coscienza”.

Una speranza c’è! L’accordo del più grande sindacato tedesco, IG Metall, prende in considerazione a mio avviso proprio questo aspetto, e provo a tradurlo in poche parole: abbiamo lavorato sodo, abbiamo creato ricchezza. Orbene, adesso non ce la dividiamola tutta tra noi, pensiamo anche al futuro. E per coloro che amano le definizioni, chiamatelo “comunismo scientifico”, “marxismo applicato al mercato e all’economia”, ma una volta trovata l’etichetta migliore, facciamo qualcosa.

 

Il "problema" dei giovani

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