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John Mainard Keynes, che le cronache davano per scomparso, è finalmente riemerso dopo un lungo oblio. La cara e vecchia austerity che, negli anni passati, aveva angustiato la vita degli italiani-europei, (senza il trattino, copyright di Massimo D’Alema) ha subito una battuta d’arresto. Se in passato, subito dopo la Global Financial Crisis del 2007/08, non si fosse seguita quella china così pericolosa, probabilmente, oggi, i rapporti con Donald Trump sarebbero meno tesi. Se non altro perché avrebbe meno frecce al suo arco, nel denunciare presunti atteggiamenti truffaldini dell’Europa nei confronti del suo Paese.

Esiste un dato che, nella sua sinteticità, ha fatto letteralmente impazzire l’inquilino della Casa Bianca. Nel 2023, gli Stati Uniti non solo erano alla testa della classifica dei Paesi più indebitati nei confronti del mondo, per un valore pari a 18.800 miliardi di dollari. Ma quel debito era pari a 22 volte il debito del secondo in classifica. Al secolo: la Spagna. Mentre i crediti verso l’estero da parte della Germania, anch’essa al secondo posto, ad un passo dal Giappone, superavano i 3,5 miliardi di dollari. Differenze destinate probabilmente ad aumentare.

Ma come – si sarà detto Trump – attingendo dalla sua vecchia esperienza affaristica, abbiamo dato tanto e che ci abbiamo guadagnato? Come ha teorizzato Stephen Miran – subito promosso a capo degli economic advisors – gli Stati Uniti hanno fornito sicurezza a tutto il mondo e, con il dollaro, gli strumenti indispensabili per una crescita complessiva che, alla fine, si è ritorta, proprio contro gli ingenui filantropi. La cosa poteva andare finché l’America era all’apogeo. Il Paese più forte del mondo. Ma da quando è stato superato dalla Cina, quell’antico obbligo è diventato troppo oneroso. Ed allora rifare i conti è stato indispensabile.

Solo una mezza verità. Miran trascura di considerare il contributo finanziario che gli investitori esteri, con l’Europa in testa, hanno fornito al primato tecnologico americano. Prima nei settori dell’Ict (information and communications technology) poi in quello dell’AI (Artificial Intelligence). Il meccanismo era relativamente semplice. Dall’estero una pioggia di investimenti di portafoglio: somme fornite senza alcuna pretesa di incidere sulle successive decisioni di utilizzo. Risorse poi usati sia per lo sviluppo interno, che per acquisire assets all’estero. Nel periodo 2000/2023, secondo i dati del Fondo Monetario, gli investimenti netti di portafoglio, in entrata, sono stati pari a 9,1 trilioni di dollari. Gli investimenti diretti, in uscita, a 164 miliardi.

Quindi nessun vittimismo. Come ha osservato Carlo Cottarelli, gli americani hanno vissuto, grazie al contributo estero, “al di sopra delle loro mezzi”, come ha mostrato il perenne squilibrio delle partite correnti della loro bilancia dei pagamenti. Condizione che è stata resa possibile dal signoraggio esercitato dal dollaro. Che sarà stato anche sopravvalutato, come lamenta Miran, ma che non ha mai richiesto, salvo rarissime occasioni, politiche di “lacrime e sangue”. Come, invece, era regola generale per i comuni mortali. Vale a dire per il Resto del mondo: dalla Grecia, all’Argentina, passando per l’Italia.

Ristabilita quindi una parità nel ping-pong delle responsabilità, resta comunque il problema di capire. Cosa nasconde l’arroganza di Donald Trump? Soprattutto una crisi profonda dell’economia e della società americana. Charles Kindleberger, polemizzando con i francesi che, negli anni ‘60, denunciavano il possibile dominio americano, faceva osservare come la necessaria funzione di leadership – in precedenza esercitata dagli inglesi – comportava oneri e onori, vantaggi e sacrifici. In un continuo e delicato equilibrio. Relazione che, nel caso degli Stati Uniti, non ha tenuto. I costi, infatti, con il trascorrere degli anni, sono divenuti eccessivi. Investendo l’intera politica americana, fino a produrre una leadership che non ha esitato a negare – a partire dai dazi – la storia più complessiva del proprio Paese.

Sempre Carlo Cottarelli fa osservare come “il deficit pubblico americano” sia “eccessivo”. “Richiede” pertanto “di essere finanziato a tassi di interesse elevati che attirano (quei) capitali” di cui si è detto in precedenza. L’evidenza empirica supporta questa tesi. Secondo il Cbo (Congressional Budget Office), organismo indipendente addetto al controllo dei conti pubblici, nel periodo 1975/2024, il deficit di bilancio americano è stato pari, in media, al 3,8% del Pil. Nello stesso periodo le spese per la difesa sono state del 3,7 e gli interessi hanno pesato, sul Pil, per il 2,1% del Pil. La differenza, pari a due punti di Pil (3,7+2,1-3,8) è stata posta a carico dall’economia americana.

Con il trascorrere del tempo, tuttavia, quell’equilibrio è decisamente peggiorato. Nel 2024, ad esempio, il deficit di bilancio è stato pari al 6,6%, alimentato da una spesa per la difesa pari al 3% ed una per interessi del 3,1%. Quest’ultima riflesso di una crescita esponenziale del debito pubblico, che in quell’anno aveva raggiunto il 121%. Ma che, secondo le previsioni, raggiungerà nel 2035 il 134,8%. Anno in cui il deficit di bilancio dovrebbe risultare pari al 5,8 per cento del Pil, nonostante il possibile contenimento (1 punto di Pil) della spesa militare.

Uno scenario tutt’altro che rassicurante, di fronte ai cambiamenti che si intravedono negli equilibri geopolitici del Pianeta. Finora la sopravvivenza dell’Occidente è stata garantita da un mix di soft e hard power. Forza militare e presenza culturale in grado di offrire a tutti un possibile orizzonte, contro i mille oscurantismi che ancora condizionano l’evoluzione del genere umano. Non tutti saranno d’accordo con questa valutazione, vogliosi, come sono, di valorizzare i miti dell’antagonismo. Pronti, quindi, a denunciare errori e cedimenti. Ma solo correndo il rischio di travisare il senso più profondo del trascorrere della storia. Che, invece, va continuamente onorato.

Nel 2024 le spese militari dell’Occidente, secondo il report della Nato, sono state pari a 1,5 trilioni di dollari. Gli americani vi hanno contribuito per 967 miliardi. Per il 66% del totale. Un impegno che, nelle mutate condizioni finanziarie, che caratterizzano il gigante americano, è difficile mantenere. Soprattutto pretendere da parte dei suoi alleati. Sempre che non si preferisca cedere armi e bagagli alla prepotenza degli storici antagonisti dell’Occidente. Ed allora che fare?

Occorre evitare, innanzitutto, di peggiorare la situazione. Da questo punto di vista, il ricorso ad una politica dei dazi, è quanto di peggio si possa immaginare. Colpisce chi la subisce, ma non salva il promotore. Rendendolo, inevitabilmente, oggetto delle inevitabili ritorsioni. Un gioco a somma negativa, destinato ad accentuare le difficoltà di tutto l’Occidente, senza salvare alcuni. La stessa crisi americana, che ne è all’origine, è pertanto destinata a peggiorare. Il che spiega, se non altro, la cautela con cui lo stesso Miran analizza il problema. Ed offre le relative soluzioni.

Al tempo stesso, tuttavia, bisogna cercare di salvare l’America da sé stessa. Impedire cioè di fornire risposte inadeguate: destinate ad allargare quell’oceano che già divide le due sponde dell’Atlantico. Dando a Cesare quel che è di Cesare. Il che vale a dire che i costi della difesa di tutti vanno ripartiti in modo più equilibrato, per realizzare una partnership diversa dal passato. Al tempo stesso stabilire un coordinamento più stretto tra le politiche economiche dell’”Occidente globale”, come direbbe Vladimir Putin, per far sì che non siano solo gli Stati Uniti a svolgere il ruolo di “locomotiva”. Contribuendo, attraverso questa via, a riequilibrare le stesse bilance commerciali.

Ma per ottenere un qualche risultato è necessario, innanzitutto, fare i conti con il fronte interno, che divide, specie in Europa, i singoli Paesi. Dove i putiniani di complemento lavorano per il Re di Russia. Sia ricorrendo all’arma del pacifismo, sia propugnando la necessità una corsa in solitario, dopo aver abbandonato l’Europa al suo triste destino. Nel primo caso, la riproposizione del vecchio appeasement, quell’illusione che, per pochi mesi, impedì, agli alleati, di comprendere le reali intenzioni di Adolf Hitler, prima dello scoppio della guerra. Nel secondo, l’idea di un “si salvi chi può”. Pensando che l’Italia possa avere carte migliori da giocare. E che debba utilizzarle, facendo concorrenza all’Ungheria di Orban. Miraggi entrambi pericolosi, ma capaci di trascinare una parte dell’opinione pubblica, almeno fino al momento del successivo doloroso risveglio.

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