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Una premessa va fatta: occorre rammentare il perché dell’opposta polarità che ispira le politiche economiche negli Usa e nel Regno Unito, Paesi dotati di una propria moneta, rispetto a quelle imposte nell’Eurozona con il Trattato di Maastricht e di recente con il Fiscal Compact. Occorre evitare la dissoluzione dell’Unione e dell’euro, a causa della portata dirompente degli shock asimmetrici, crisi economiche e finanziarie localizzate anche in Stati di piccola dimensione.

Accade infatti che negli Usa e nel Regno Unito, accanto ad una moneta propria, esistono presupposti istituzionali di unitarietà delle finanze pubbliche e del debito, condizioni di effettiva omogeneità del mercato del lavoro, nonché meccanismi di redistribuzione dei redditi che garantiscono un livello consistente di solidarietà tra le diverse comunità territoriali, tali per cui una anche gravissima crisi economica o finanziaria localizzata non si ripercuote sulla stabilità complessiva. Ne consegue che, sia negli Usa che nel Regno Unito, gli obiettivi comuni alla politica di bilancio ed a quella monetaria sono rappresentati dal perseguimento della crescita economica e della massima occupazione, con il vincolo della stabilità dei prezzi. In questo contesto, la determinazione del deficit pubblico, così come la creazione di moneta e la fissazione del suo prezzo, nonché il finanziamento monetario del bilancio pubblico rappresentano gli strumenti a disposizione dei decisori pubblici per raggiungere gli obiettivi della politica economica.

Nell’Eurozona, mancando tutti i citati presupposti istituzionali e politici, le condizioni di permeabilità del mercato del lavoro ed i meccanismi di solidarietà territoriale, occorre creare situazioni di stabilità a livello nazionale volte ad evitare che una grave crisi, per quanto localizzata in uno Stato di piccole dimensioni come è successo nel caso della Grecia, determini la perdita di fiducia nella tenuta dell’intero sistema, con fughe di capitali destabilzzanti, sia all’interno dell’area sia verso l’esterno. Nell’Unione Europea si determina una inversione tra obiettivi e strumenti: anzichè perseguire la crescita economica e la massima occupazione in un contesto di prezzi stabili, attraverso il deficit di bilancio e la politica monetaria, già con il Trattato di Maastricht è stato stabilito il divieto di finanziamento monetario dei bilanci pubblici ed un limite al disavanzo, il famoso tetto del 3%. Con il Fiscal Compact, un trattato internazionale autonomo rispetto a quello di Lisbona, ed a cui il Regno Unito non ha aderito, è stato previsto l’obbligo del pareggio strutturale dei bilanci pubblici, da perseguire gradualmente attraverso la fissazione di obiettivi a medio termine (Mto), e la riduzione del rapporto debito/pil di un ventesimo l’anno fino al raggiungimento del 60%.

Nell’Eurozona, in conclusione, la crescita economica e l’occupazione rappresentano una variabile dipendente rispetto all’obiettivo della stabilità delle finanze pubbliche: nel sistema capitalistico Occidentale, rappresentiamo la faccia oscura della luna. Le clausole di flessibilità, previste nel Fiscal Compact sono state via via estese: altre al caso delle condizioni macroeconomiche avverse, ci sono le deroghe per gli investimenti volti ad aumentare il pil potenziale, quelli per le  riforme strutturali che peggiorano temporaneamente la congiuntura seppure in vista di una maggior dinamica economica, e quelle volte a tener conto delle spese straordinarie sostenute per fronteggiare l’emergenza migratoria e per la sicurezza nazionale di fronte al terrorismo jihadista. Sono un terreno di confronto politico diplomatico con la Commissione: la Germania, è noto, teme che trasformino una imperforabile corazza di acciaio in un goloso Emmenthal da rosicchiare un po’ alla volta.

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