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L’hashtag #Scotus (Supreme Court of the US) è tornato di moda, dopo qualche mese di sonnolenza. Non poteva essere altrimenti, con il Twitter-in-Chief (così lo chiama Alec Baldwin nell’imitazione senza sconti che fa per il Saturday Night Live) Donald Trump sempre più vicino al trasloco dalla sua Tower di eccessi alla Casa Bianca.

Fresco della copertina di Time (stavolta ce l’ha fatta), il magnate che si appresta a diventare il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti è, sin dall’indomani della vittoria, al lavoro per formare la squadra, con ritmi, modalità e fughe di notizie che lasciano la sensazione di assistere a un altro suo reality show, come quando gridava compiaciuto “You’refired!” ai concorrenti di “The Apprentice”.

Solo che, stavolta, il paradigma è ribaltato e alcuni fortunati si sentono invece dire “You’rehired!”. Fra questi, tanti militari di carriera, finanzieri, e ricchi donatori del partito repubblicano.

IL NUOVO SCALIA

Presto i riflettori si sposteranno dall’amministrazione a una nomina di ben altro spessore e sapore, forse la più importante, per calibro e caratura, che un presidente può mettere a segno. Il tycoon è infatti chiamato a indicare un nuovo giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti per il seggio lasciato vacante dall’ultraconservatore italoamericano Antonin Scalia, morto improvvisamente lo scorso febbraio, ricomponendo così il plenum dell’organo di nove Justices.

Si tratta di una mossa dall’alto significato politico e simbolico, perché i giudici rimangono in carica a vita (a meno di dimissioni volontarie). Nominarne anche solo uno vuol dire mettere in qualche modo in sicurezza la propria visione per gli anni a venire. Nell’ordinamento giuridico americano il ruolo della Corte è infatti centrale; il paese ha spesso compiuto svolte storiche proprio grazie a pronunce fondanti (un caso emblematico è la Roe v. Wade sull’interruzione di gravidanza).

Trump, che ha la fortuna di poterlo fare già al primo vagito del proprio mandato, assicura che consoliderà il dominio della destra nel plenum, scegliendo un giudice che, collocandosi nel solco “originalista” di Scalia, sia interprete fedele del testo costituzionale e nemico di ogni sorta di lettura estensiva del dato letterale.

Una bella sterzata dopo appena due anni di importanti conquiste per il fronte liberal della Corte, che nel 2015 – con appena un voto di margine – ha riconosciuto la costituzionalità del matrimonio omosessuale, estendendolo a tutto il territorio federale. E dire che la sinistra democratica era arrivata ad un passo dalla possibilità di ipotecare la Corte – negli ultimi quarant’anni un fortino tendenzialmente conservatore -, con la sostituzione di Scalia e un paio di dimissioni ben orchestrate sotto una presidenza Hillary.

GARLAND OUT

Durante la campagna elettorale, Trump, per una volta spalleggiato dal partito già durante le primarie, ha capeggiato il boicottaggio esercitato dalla maggioranza repubblicana al Senato, che ha rifiutato di prendere in esame Merrick Garland, il giudice proposto da Barack Obama lo scorso marzo, in modo che la nomina fosse riservata al quarantacinquesimo presidente (“e al popolo americano”, in occasione dell’Election Day).

Nessuna audizione è stata concessa a Garland – una candidatura di ampio compromesso -, e così di fatto non si è mai avviata la procedura necessaria perché il Senato esprimesse l’advice and consent necessario alla nomina.

Circolano voci di un’amministrazione Obama pronta a forzare la mano, ricorrendo prima del gong ai privilegi governativi per far passare la nomina – considerando il blocco del Senato come una tacita rinuncia all’esercizio del potere – o calendarizzando il voto su Garland nella ristretta finestra dei rinnovi dei seggi a inizio gennaio così da approfittare di alcune assenze.

È però improbabile che ciò accada dato lo spirito di leale cooperazione che anima i rapporti fra un esecutivo uscente e uno entrante, e il fatto che il primo sia in carica essenzialmente per l’ordinaria amministrazione e per garantire un’efficace transizione di potere. Così, per la prima volta nella storia della Corte, un giudice in pectore viene fatto fuori senza neppure passare dall’audizione parlamentare.

GOODBYE, IVY LEAGUE

Con un’età media decisamente alta soprattutto fra le punte di diamante del fronte liberal, questa potrebbe essere solo la prima nomina ad appannaggio di Trump. L’83enne Ruth Baden Ginsburg, la matrona dei democratici (che con Trump ha ingaggiato più d’uno scontro nei mesi passati), dovrà tenere duro per almeno ancora quattro anni. La tempra non le manca.

Il presidente-eletto, intanto, è tornato sul nome che proporrà al Senato, ribadendo che lo pescherà dalla lista di 21 nomi resa nota sul suo sito in campagna elettorale (10 a maggio e 11 a settembre): un discreto equilibrio fra rassicurazioni e provocazioni all’establishment conservatore.

Come ha messo in luce il New York Times, il denominatore comune all’elenco è l’assenza di nomi provenienti dalle Law Schools della Ivy League (il circuito delle otto più prestigiose università statunitensi che tradizionalmente sforna i Supreme Justices).

Trump non vuole un giudice né debole né moderato ma possibilmente sulla cinquantina, che possa assicurarsi un lungo mandato di fronte a sé. Fra i favoriti, due giudici federali. Da una parte, l’antiabortista William Pryor, ben visto dalla base religiosa (da Attorney General dell’Alabama propose la cacciata del presidente della Corte Suprema dello Stato che aveva ordinato la rimozione dei Dieci Comandamenti dal palazzo di giustizia). Dall’altra, la forse più moderata Diane Sykes, su posizioni gradite alla lobby delle armi. L’elefante repubblicano è tornato nella cristalleria dei diritti civili.

Articolo tratto da Affari Internazionali

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