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Doveva essere il “Supermartedì” e lo è stato. Dodici pezzi d’America sono andati alle urne a cercar di scegliere il candidato dei rispettivi partiti per la Casa Bianca, o addirittura un favorito per andare ad occuparla il prossimo novembre. La scommessa è riuscita solo in parte e precisamente nel settore che riguarda il Partito democratico, il cui establishment ha deciso di legare una volta di più le proprie fortune alla dinastia Clinton, in contrasto con la scelta dei repubblicani di relegare nei musei e nei libri di storia l’altra dinastia, quella dei Bush.

Il compito di Hillary, naturalmente, era molto più facile: non c’erano concorrenti “professionisti”. Di sfidanti si è presentato solo un idealista come Bernie Sanders, anziano e benevolo ma, ignorato da sempre dallo Stato maggiore del suo partito, disposto a sfidarlo anche levando come sue bandiere due parole che alla maggior parte degli americani suonano quasi come bestemmie e turpiloqui: “socialismo” e “rivoluzione”.

Date le premesse, i risultati finora ottenuti da Sanders sono sorprendentemente buoni. Il “Supermartedì democratico” si svolgeva in undici Stati e l’anziano contestatore ne ha conquistati quattro contro i sette della matriarca.

Ma sono stati piuttosto piccoli mentre lei ha intascato quelli grassi di delegati alla Convenzione che la nominerà. L’hanno aiutata il buon ricordo di Bill, marito presidente e il massiccio, compatto voto degli americani di pelle nera, che badano agli argomenti che nel gergo politico Usa si chiamano “pane e burro”. Sanders forniva mete più idealistiche e avanzate come la salute e la scuola gratis per tutti i cittadini.

La Clinton ha risposto capovolgendo lo slogan vittorioso di Barack Obama: “Yes, We can”, “Sì, possiamo”. Lei ha fatto presente che “non possiamo” perché costerebbe troppo e perché non se la sente di sfidare l’establishment economico-finanziario. Ha giocato, inoltre, l’antica preoccupazione di “non buttare via il voto”. Meglio concentrarsi e concentrarlo contro Donald Trump.

E sull’altra faccia del “Supermartedì”, quella repubblicana. Che non è stata all’insegna del fioretto fra due aspiranti di età avanzata, bensì la versione politica di una “guerra totale”, che nel mirino ha più o meno la distruzione dell’avversario.

Gli aspiranti repubblicani alla nomination per la Casa Bianca non erano due come i democratici bensì cinque, due dei quali però senza grandi ambizioni. Gli altri tre sono ambiziosissimi e intransigenti. Trump è assolutamente convinto della propria superiorità e ha ottenuto conferma finora in quasi tutti i test elettorali. Anche nel “Supermartedì” è arrivato primo in sette su dodici, accumulando così una valanga di delegati alla Convenzione: la maggioranza assoluta di quelli già scelti e forte probabilità di mantenerla anche per il conto totale.

Trump non ha realmente dei concorrenti. I sue due rivali, Ted Cruz e Marco Rubio, non hanno alcuna possibilità di superarlo. Lo si è visto anche nel “Supermartedì”, dove lui ha conquistato sette Stati, Rubio e Cruz due ciascuno. Dovevano fermarlo ma anche questa “Linea Maginot” è crollata, indebolita anche dalla rivalità fra i due paladini. Che appartengono entrambi all’ala destra del partito.

Cruz addirittura, dicono, all’estrema destra ed effettivamente, in alcuni settori, riesce a scavalcare lo stesso Trump, ma la differenza è che quest’ultimo è a piede libero, dice e promette le cose di cui in quel momento gli ascoltatori o gli elettori hanno più voglia, cambia discorso pochi giorni dopo, le sue promesse non sono un programma ma una serie di slogan, eventualmente ritrattabili nel caso si fossero spinte troppo in là.

Non dimentichiamo che Trump è una specie di esordiente nella politica repubblicana: fino a pochi anni fa simpatizzava per i democratici (ci sono sue fotografie a cordiale colloquio con dei leaders della contestazione di colore, egli finanziò in passato le campagne elettorali di Hillary Clinton) e, se uno slogan non “attacca”, è pronto a rimetterlo nel cassetto.

Cruz è venuto su invece con l’onda del Tea Party e ne ha assunto in pratica la guida. Come Trump vuole costruire una grande muraglia alla frontiera messicana per combattere l’immigrazione, espellere undici milioni di immigrati illegali, “stracciare” il programma di Obama di assistenza medica, stracciare il Trattato con l’Iran, affrontare la Russia a muso duro. Vuole anche restaurare il bilancio in pareggio, “tagliando” quasi tutte le spese e aumentando drasticamente solo quelle militari.

È troppo anche per l’establishment conservatore del partito, che appoggia invece con entusiasmo Rubio, che pure sta molto a destra ma ha proposte e toni che spaventano meno gli elettori. I dirigenti repubblicani avevano sperato a lungo che il fenomeno Trump si esaurisse da solo.

Adesso è chiaro che ciò non accadrà e allora puntano su Rubio per fermarlo. Ma anche il “Supermartedì” ha confermato che il voto anti Trump è diviso in parti quasi uguali. È rimasta dunque una sola, ultima carta da giocare: convincere o Rubio o Cruz a ritirarsi e spostare i suoi voti sul “socio” rimasto.

Sommati, essi raccolgono ancora più voti del “ribelle”. Divisi gli lasciano via libera, sull'”autostrada” che porta allo scontro con la Clinton a novembre, che a questo punto potrebbe anche causare la grande sorpresa: farsi eleggere presidente, nel nome della continuità con Obama.

Pubblicato su Italia Oggi/ MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

Vi racconto le astuzie di Donald Trump

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