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Per quanto “preso quasi alla fine del mondo”, come si presentò simpaticamente ai fedeli la sera del 13 marzo 2013 dalla loggia di San Pietro, il Santo Padre conosce bene l’Italia, e Roma in particolare. Sicuramente meglio della sua famiglia d’origine, che pure era piemontese, espatriata in Argentina nel 1929.

Papa Francesco sa, per esempio, che il Circo dove si è festeggiato sabato scorso il giorno della famiglia per contrastare le unioni civili anche omosessuali, che si vorrebbero disciplinare persino con diritto annesso di adozione, è tanto Massimo, con la maiuscola toponomastica, quanto sfortunato, almeno politicamente. A Roma, in verità, si dice sfigato.

Le vittorie che si conseguono in quella piazza, gonfiandola di pubblico nell’immaginario ben al di là della sua capienza fisica, sono effimere. I vincitori sono destinati in poco tempo ad uscire dalla scena come sconfitti.

Ragioni scaramantiche debbono avere pertanto suggerito al Papa di tenersi lontano da quel Circo. E di tenervi lontano qualche cardinale tentato invece di andarvi, costringendolo ad accontentarsi di seguire il raduno davanti al televisore di casa, come ha fatto l’eminentissimo Camillo Ruini commentandone le immagini e i suoni con l’inviato del Corriere della Sera Aldo Cazzullo. Che ne ha raccolto, fra l’altro, una certa nostalgia per Paolo VI, un Papa bresciano “che aveva una forte percezione delle cose italiane”. Ma non tanto forte, in verità, da prevedere quella débacle che fu anche per la Chiesa il referendum del 1974 contro il divorzio. Tutto da allora cambiò negli equilibri politici.

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Fu proprio al Circo Massimo che l’allora segretario generale della Cgil Sergio Cofferati si vantò il 23 marzo 2002 – di sabato, come il 30 gennaio scorso con il Family day – tre milioni di persone, contro le 700 mila già troppo generosamente calcolate dalla Questura di Roma, per diffidare l’allora governo di Silvio Berlusconi dall’intervenire sugli scioperi disciplinati restrittivamente dall’articolo 18 del vecchio statuto dei diritti dei lavoratori.

In effetti, Berlusconi non fu in grado di toccare quella norma, mancandogli ad un certo punto anche la sponda della Confindustria. Ci sarebbe riuscito dopo 13 anni Matteo Renzi.

Nel frattempo però le cose non sono andate bene neppure a Cofferati, tornato nel 2003 a lavorare alla Pirelli, ripescato politicamente l’anno dopo a livello locale, come sindaco di Bologna, emigrato poi al Parlamento Europeo, bocciato l’anno scorso nelle primarie di partito per la corsa a governatore della Liguria, uscito per protesta dal Pd e ridotto ora a rappresentare, in collegamento con i soliti salotti televisivi, qualcuna delle schegge della sinistra rottamata da Renzi con il già ricordato articolo 18. Non lo chiamano più nemmeno “il cinese”, come ai bei tempi. E solo un ex, di tutto.

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Fu sempre al Circo Massimo che il 25 ottobre 2008, di sabato naturalmente, il co-fondatore e segretario del Pd Walter Veltroni, sconfitto in primavera da Berlusconi, che in campagna elettorale egli non aveva mai chiamato per nome, parlandone riduttivamente come del “principale esponente dello schieramento avverso”, si vantò di avere raccolto due milioni e mezzo di persone, contro le 250 mila valutate con la solita generosità dalla Polizia, per cambiare marcia all’opposizione. Cioè per renderla più aspra, col fiele politico ed anche personale fornito nella solita quantità industriale da Antonio Di Pietro. Che pure aveva fatto al segretario del Pd lo scherzetto di costituire con la sua Italia dei Valori gruppi parlamentari autonomi, nonostante si fosse impegnato, con l’apparentamento elettorale con Veltroni e il conseguente accesso alle Camere pur al di sotto del tre per cento dei voti, di partecipare ad un solo e comune gruppo, tanto a Montecitorio quanto al Senato.

Il raduno veltroniano al Circo Massimo, preceduto peraltro dalla raccolta di milioni di firme contro Berlusconi, impressionò talmente Gianfranco Fini, ancora fresco di promozione a presidente della Camera in quota berlusconiana, da farlo compiacere pubblicamente dell’”ordinato successo” della manifestazione di sinistra. Due anni dopo si sarebbe consumata la rottura irrimediabilmente rovinosa del centrodestra.

Ma prima ancora della rottura tra Fini e Berlusconi si consumò non meno rovinosamente, al vertice del Pd, la parabola di Veltroni. Che si dimise il 17 febbraio 2009, assediato dalle correnti del partito, nonostante i presunti due milioni di fedeli al Circo Massimo, e indebolito da due cocenti sconfitte elettorali, prima nella regione Abruzzo e poi in Sardegna.

Si chiamava, e si chiama massimo, ma per Cofferati e Veltroni quel Circo fu semplicemente minimo. Prenda pure le cautele del caso il professore neurologo Massimo – pure lui – Gandolfini, protagonista del raduno di sabato scorso.

Cofferati, Veltroni, Gandolfini e le sbornie da Circo Massimo

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