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Si usa l’arma della memoria, che peraltro è anche il titolo di un bel saggio di Paolo Mieli appena uscito, anche per cercare e indicare le somiglianze, nel bene o nel male, fra il leader politico del momento e quanti lo hanno preceduto. È un esercizio, questo, che naturalmente risulta più facile e immediato agli anziani che ai giovani, e tanto meno ai giovanissimi, che hanno ben poca, o nessuna memoria cui attingere. A costoro l’esercizio del paragone, o della somiglianza, può riuscire solo sul piano storico, studiando più che ricordando.

Con i suoi 95 anni in via di compimento, pur potendo spingersi per ragioni anagrafiche addirittura a Benito Mussolini, e volendo paragonare a qualcuno il buon Matteo Renzi, a lei chiaramente indigesto, Marisa Cinciari Rodano ha chiamato il presidente del Consiglio, e segretario in carica del Partito Democratico, “Matteo Craxi”.

Per  la vedova Rodano, comunista tanto convinta da essersi fermata nella sua militanza politica all’esperienza dei Ds, rifiutando la confluenza nel Pd con quella parte della Dc pur proveniente dalla sinistra più aperta al Pci, non c’è quindi modo peggiore di trattare Renzi che paragonarlo a Bettino Craxi. Che fu ed è ancora, per quanto morto da più di 15 anni, l’uomo, e non solo il socialista, più odiato dai comunisti. I quali non gli hanno mai perdonato, oltre all’autonomia rivendicata e praticata rispetto al Pci, lo stesso obbiettivo perseguito oggi da Renzi: la modernizzazione di una sinistra troppo a lungo inchiodata alla lotta di classe, in un mondo peraltro in cui le classi sono tanto cambiate e si sono tanto mescolate che pensare di poterle ancora mettere le une contro le altre, e scommettere su un simile scenario, sa di caverna, non di società.

La caverna preferita da questo tipo di sinistra è quella in cui anche i ricchi – come diceva un celebre manifesto affisso sui muri all’epoca dell’ultimo governo di Romano Prodi – debbono piangere, potendo o addirittura dovendo questo bastare a far ridere i poveri.

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Ma più che dal mondo socialista, pur avendo voluto portare il Pd nella famiglia dei socialisti europei più velocemente di quanto non avessero saputo fare i suoi predecessori di provenienza comunista, Renzi viene dal mondo e dalla cultura democristiana. E non da quella che fu la sinistra della Dc, ma dalla cultura e dalla pratica dei dorotei, campioni, nel bene e nel male, del pragmatismo e della capacità di conservare il potere. Staccandosi da quella corposa corrente democristiana, la più grossa del partito, e volendone descrivere la natura, secondo lui troppo opportunistica, Paolo Emilio Taviani raccontò che nella sua Genova, allo stadio, non sapendo più come inveire contro l’arbitro i tifosi gli gridarono del doroteo, appunto.

Dai dorotei uscì poi anche Aldo Moro, non perdonando loro di averlo in tutti i modi frenato al governo, fra il 1963 e il 1968, nei rapporti col Psi di Pietro Nenni, salvo concedere poi ai socialisti tutto quello che avevano imposto a lui di rifiutare, una volta allontanatolo da Palazzo Chigi per sostituirlo con Mariano Rumor. Che formò il suo governo, sempre di centro-sinistra con i socialisti, nel frattempo passati sotto la guida di Francesco De Martino, chiamandolo “più incisivo e coraggioso” di quello consentito al suo predecessore.

I più giovani non mi crederanno, ma ci sono momenti in cui Renzi mi ricorda proprio Rumor per la disinvoltura con cui, per esempio, fresco di elezione a segretario del Pd, sostituì Enrico Letta alla guida del governo per fare ciò che egli aveva contribuito ad impedirgli: la detassazione vera della prima casa, la responsabilità civile dei magistrati, il taglio dell’articolo 18 sui licenziamenti ed altro ancora.

Ci sono poi momenti in cui Renzi mi ricorda Amintore Fanfani per il pugno col quale guida il partito, almeno a livello nazionale, visto che in periferia le cose vanno diversamente. E momenti infine in cui egli riesce a ricordarmi perfino Moro, il più distante sicuramente da lui per temperamento e stile.

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In particolare, mi ricordano Moro le resistenze opposte da Renzi alle reputate proposte dell’economista Tito Boeri, pur da lui voluto alla presidenza dell’Inps, di tagliare le pensioni sopra i 3000-3500 euro lordi mensili, considerate addirittura d’oro, per fare non cassa ma addirittura “equità”: della serie già ricordata di divertire i poveri facendo piangere i presunti ricchi.

Moro aveva fra i suoi consiglieri economici, nella sua prima esperienza di presidente del Consiglio, il non ancora quarantenne ma già noto Nino Andreatta, destinato a diventare ministro del Bilancio nel 1979 con Francesco Cossiga, ministro del Tesoro nel 1980 con Arnaldo Forlani e poi altro ancora. Come Boeri oggi, con Renzi, così Andreatta con Moro negli anni Sessanta proponeva misure impopolari, o ne sconsigliava di popolari, per fare quadrare meglio i conti.

Spazientito anche dall’ascolto che il suo consigliere trovava nell’allora ministro del Tesoro Emilio Colombo, per cui l’azione di governo finì per penalizzare pesantemente i socialisti, destinati a uscire malconci nel 1968 dalle urne, per quanto vi fossero giunti con l’unificazione fra Psi e Psdi, una volta Moro mi confidò: “Andreatta è bravo a fare di conti,  ma a me tocca governare il Paese, non una guerra civile”.

Ebbene, sospetto che quelle parole di Moro, con Boeri al posto di Andreatta, le stia dicendo ai suoi anche Renzi. Che tuttavia, rispetto a Moro, mi pare abbia la capacità anche di non farsi paralizzare dalle buone maniere, e di trovare qualcos’altro da fare a Boeri, risparmiando ai pensionati le angosce alle quali li sottopone continuamente il presidente dell’Inps, peraltro con invasioni di campo giustamente sottolineate da un super-esperto della materia come Giuliano Cazzola.

Renzi tra Fanfani, Moro e Rumor

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