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Il 5 ottobre il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha evidenziato la debolezza dell’attuale situazione economica dell’Iran. Il crollo del prezzo del petrolio potrebbe costare all’Iran più entrate di quante ne derivano dalla rimozione delle sanzioni. Tutto questo costituisce uno scenario politico ricco di sfide per il presidente Hassan Rouhani.

Il comunicato stampa del Fmi cita Martin Cerisola, capo della missione in Iran del 19-30 settembre: “L’economia al momento è debole, dato il significativo rallentamento dell’attività economica verificatosi da gennaio a marzo 2015. L’economia potrebbe essersi spinta in recessione tra aprile e settembre”. Qualora confermata, questa valutazione rispecchierebbe il rapporto del Centro statistico iraniano, in cui si dichiara che la produzione industriale è calata del 2% su base annua nel periodo gennaio-marzo 2015.

L’accordo non ha portato neppure una ventata di ottimismo tra i gruppi imprenditoriali iraniani. I più significativi indicatori dello spirito del business sono il tasso di cambio sul dollaro e l’indice principale della Borsa di Teheran (Tse). L’intesa di Losanna del 2 aprile 2015 aveva portato l’indice Tse da 61,533 a 70,844. Poi c’è stata un’oscillazione che lo ha portato al valore di 69,433 il 14 luglio, giorno in cui è stato raggiunto l’ accordo. Da allora è calato continuativamente fino a 61,209 (valore del 6 ottobre). Sembra che la prospettiva di un accordo fosse stata anticipata nei piani imprenditoriali prima della svolta del 14 luglio. Attualmente l’indice è ai livelli antecedenti a Losanna, nonché il 30% al di sotto del picco di 89,5 di gennaio 2014, quando le speranze di un boom promosso da Rouhani avevano gonfiato una bolla insostenibile. In sintesi, gli imprenditori iraniani hanno reagito all’accordo in maniera molto più contenuta rispetto a quelli stranieri, europei in particolare, che vedono in Teheran un potenziale El Dorado.

Il caso più eclatante è quello dell’industria automobilistica, molto significativa per l’economia iraniana. Già con il limitato sollievo derivato dall’intesa provvisoria entrata in vigore nel gennaio 2014 la produzione di nuovi veicoli in Iran – nota come “auto zero” in riferimento al valore del contachilometri – è salito a 1,09 milioni nel 2014-15 da 0,74 milioni del 2013-14, pur assestandosi ben al di sotto del picco di 1,65 milioni registrato nel 2011-12. Le speranze dei produttori automobilistici di un’ulteriore ripresa sono state frustrate duramente dalla campagna “No alle auto zero” che, in vista della disponibilità di auto qualitativamente migliori provenienti dall’Europa, ha lanciato un boicottaggio delle auto di fabbricazione iraniana.

Il ministro dell’Industria e del commercio Mohammad Reza Nematzadeh ha affermato che sperare in prezzi inferiori delle automobili è naturale, ma che l’accordo sul nucleare da solo non potrebbe portare questo risultato. Inoltre, ha lamentato che le vendite di elettrodomestici sono calate del 5-6% dopo l’accordo.
I problemi dell’economia iraniana vanno ben oltre la rimozione delle sanzioni. In particolare, il Paese ha sofferto duramente per il crollo del prezzo del petrolio, passato dai 100,75 dollari a barile dell’agosto 2014 ai 45,46 dell’agosto 2015. Le esportazioni di petrolio dell’Iran sono state più o meno costanti in quel periodo, dunque i ricavi si sono dimezzati. Un calo di 55 dollari al barile significa che l’esportazione di 1,2 milioni di barili al giorno fornisce 24 miliardi di dollari di ricavo annuo in meno, sia per il governo sia per le compagnie petrolifere che esso controlla. Questo è un autentico problema per un Paese la cui spesa pubblica è circa di 65 miliardi di dollari all’anno. Molti progetti infrastrutturali sono stati posticipati o sospesi.

L’Iran sostiene che sarà in grado di aumentare rapidamente la produzione di petrolio. Alcuni funzionari parlano di 500mila barili in più al giorno entro pochi mesi, un milione in più entro un anno. Anche se queste previsioni fossero accurate, l’Iran potrebbe aumentare la produzione solo attraverso sostanziali investimenti; inoltre i suoi costi di produzione non sono bassi quanto quelli degli Stati arabi del Golfo. E poi c’è il problema dell’eccesso di offerta sul mercato del petrolio. Come ha ammonito Cerisola: “Un completo ritorno dell’Iran sul mercato potrebbe abbassare ulteriormente i prezzi, imponendo un ulteriore aggiustamento fiscale”.

La fine del boom globale del mercato delle materie prime ha colpito l’Iran in altri modi. Nel 2014, prima che i prezzi si dimezzassero, l’Iran era il nono esportatore mondiale di ferro: oggi si prevede che le esportazioni del 2016 saranno inferiori di un terzo rispetto ai valori del 2014, dal momento che molte miniere private stanno cessando l’attività. Secondo Keyvan Jafari Tehrani, membro della locale Associazione di produttori ed esportatori di ferro e minerali, entro il 2019 l’Iran potrebbe non esportare più ferro. L’industria del rame ha sofferto danni simili. Tra le poche buone notizie per Teheran figura invece la scarsità del raccolto di pistacchi di quest’anno in California, Stato che aveva scalzato l’Iran come primo produttore al mondo del frutto.

L’economia, inoltre, soffre di problemi che risalgono all’era di Ahmadinejad. Il sistema bancario è gravato da prestiti rischiosi erogati per ragioni politiche, non da ultimo quelli elargiti nel contesto del mal progettato programma di edilizia pubblica Mehr. Queste operazioni scadenti hanno limitato la capacità delle banche di effettuare prestiti a imprese produttive e, allo scopo di ricapitalizzare le banche, hanno portato la Banca centrale iraniana a tenere i tassi d’interesse alti nonostante il calo dell’inflazione. La mancanza di prestiti bancari ha aggravato l’impatto degli arretrati dovuti dal governo ai fornitori, accumulatisi negli ultimi tempi di Ahmadinejad. La scarsità di crediti bancari ha danneggiato il settore dell’edilizia residenziale: negli ultimi due anni i permessi di edificazione residenziale concessi nelle grandi città si sono dimezzati e la domanda di materiali da costruzione è scesa del 30%.

Come ha dichiarato Cerisola: “Prevedere è rischioso e le prospettive a più lungo termine dipenderanno sensibilmente dalla portata delle riforme intraprese. In sintesi, se vengono attuate riforme deboli, la rimozione delle sanzioni avrà un impatto moderatamente positivo. Se, al contrario, si portano a termine riforme più profonde e coraggiose, seguendo le raccomandazioni del Fmi, il miglioramento nella fiducia e nel flusso di investimenti in entrata metterebbe l’economia iraniana su una traiettoria di crescita decisamente maggiore”. Questa dichiarazione è banale e glissa sull’ostinata opposizione da parte di chi beneficia della corruzione, dei regimi di quasi-monopolio mantenuti da chi è vicino ai Corpi della guardia islamica rivoluzionaria o alla branca di investimento del Leader supremo Ali Khamenei, nonché della montagna di norme che protegge le inefficienti imprese di Stato. Arginare l’interferenza arbitraria e opaca nei settori economici e commerciali, espropri compresi, non necessariamente è nei poteri di Rouhani.

Più a breve termine, la politica macroeconomica rimane un argomento assai controverso. Rouhani si è concentrato perlopiù sulla riduzione dell’inflazione, con l’obiettivo dichiarato di portarla a un valore a cifra singola. A questo scopo ha avanzato proposte di bilancio restrittive, anche se il tasso di disoccupazione rimane al 10,5%. Le critiche contro quest’approccio sono state riassunte da Kevyan Sheikhi, capo dell’Organizzazione titoli e scambi del dipartimento statistico dell’Iran: “Ignorare l’attuale recessione, preoccuparsi per la riduzione del tasso di inflazione nominale e crogiolarsi nella gloria non aiuterà l’economia; piuttosto peggiorerà il clima degli investimenti”. Cerisola ha ammonito in merito alle pressioni per un incremento della spesa, che si contrappongono all’attenzione di Rouhani verso l’inflazione: “Se compresse, le domande da parte di differenti settori possono comportare rischi seri per la stabilità macroeconomica”. Tuttavia il bilancio di quest’anno ha segnato un incremento del 30% delle spese militari, nonostante la natura restrittiva del suo complesso.

È probabile che, vista l’imminenza delle elezioni per il Majlis (l’assemblea legislativa, ndr) nel febbraio 2016 e per la presidenza nel maggio 2017, le richieste di un aumento della spesa cresceranno, per mostrare i benefici economici dell’ accordo sul nucleare. Intanto, un’altra politica controversa di Rouhani, mirata a contenere l’inflazione, è il mantenimento di un tasso di cambio fisso, che beneficia i consumatori rendendo le importazioni più economiche ma danneggia i produttori che devono competere proprio con il basso prezzo di quelle importazioni, oltre a ridurre i guadagni degli esportatori.
Rouhani deve affrontare il crescente scontento dei suoi sostenitori, dovuto alla mediocre situazione economica del Paese.

L’agenzia di notizie Mehr ha pubblicato una lettera del 9 settembre indirizzata a Rouhani e firmata dal ministro della Difesa Hossein Dehghan e da tre ministri il cui incarico è legato all’economia (Ali Tayebnia, ministro dell’Economia e delle finanze, Mohammad Reza Nematzadeh, ministro dell’Industria e del commercio, Ali Rabiei, ministro del Lavoro). Nel suo testo venivano elencate molte ragioni per l’incredibile declino dell’economia iraniana, ma si individuavano come causa primaria le decisioni e le politiche scoordinate delle varie agenzie governative.
Rouhani ha limitato la sua vulnerabilità alle critiche abbracciando le principali proposte di politica che potevano fungere da attacco alle politiche governative e, in particolare, all’approccio dell’economia della resistenza, prediletto dal leader supremo Ali Khamenei. Anche se questo slogan potrebbe essere interpretato come il rifiuto di una maggiore apertura al mondo esterno, Rouhani lo presenta come fondamentale per le prospettive di crescita. Inoltre, il presidente ha sottolineato l’attenzione dell’economia della resistenza per una diversificazione complessiva della dipendenza dal petrolio. Questa strategia ha lasciato i critici interni di Rouhani privi di una chiara alternativa alle politiche governative.
Un altro punto di forza di Rouhani è il fatto che la sua squadra è decisamente più competente e meno corrotta di quella di Ahmadinejad. Nonostante i numerosi errori di politica e la lentezza nell’avviare riforme strutturali, l’amministrazione ha ottenuto risultati molto migliori dei suoi predecessori. Per esempio, il nuovo programma nazionale di assicurazione sanitaria è stato apprezzato per aver abbassato i costi per i consumatori. Tutto questo lascia ai critici poche possibilità di avvantaggiarsi del malcontento popolare dovuto all’economia.
Considerate queste dinamiche, non è affatto chiaro in che misura la debolezza dell’economia modificherà la forza di Rouhani in rapporto ai suoi oppositori. Nel breve periodo è improbabile che la recessione influenzi l’attuazione dell’accordo sul nucleare. Ma col tempo, se l’economia non dovesse prosperare, la principale spiegazione di Rouhani sulla necessità dell’accordo perderebbe gradualmente potere persuasivo. Se nonostante la fine delle sanzioni la situazione economica iraniana migliorasse nei prossimi anni solo limitatamente, la reputazione di Rouhani presso il nuovo Majlis e le sue prospettive di rielezione potrebbero soffrirne. In tal caso il calo del prezzo del petrolio danneggerebbe l’economia andando a vanificare il beneficio della rimozione delle sanzioni e la paralisi delle politiche bloccherebbe i passi necessari per la crescita.

Traduzione di Francesco Pesce e Valeria Serpentini

©2015 The Washington Institute for Near East Policy

(Articolo pubblicato sul numero 139 della rivista Formiche)

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