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E infine arriviamo al punto: quale esito comporta una deflazione prolungata in un contesto economico caratterizzato da un pesante livello di indebitamento?

Cerco una risposta nell’articolo “The costs of deflations: a historical perspective“, pubblicato nell’ultima quaterly review della Bis, incoraggiato da una domanda che si pongono gli autori: la debt-deflations è importante?

Prima di rispondere, bisogna rispolverare un po’ di storia.

Il concetto di debt-deflation risale, come gran parte delle nostre opinioni sulla deflazione, agli anni della Grande Depressione, e in particolare venne coniato da Irving Fisher, che nel 1933 pubblicò un celebre studio (The debt-deflation theory of great depressions) nel quale si proponeva di analizzare le interazioni fra il debito e la deflazione dei prezzi, partendo da un semplice principio. In caso di prezzi declinanti, il valore dei debiti aumenta.

In un contesto di alto indebitamento ciò può provocare crisi bancarie e default.

Gli autori della Bis ci ricordano che quandò inventò il termine, Fisher si preoccupava del settore business, che nei magici anni Venti era quello più esposto al debito. “Oggi – osservano – il focus è forte, se non più forte, sulle famiglie e il settore pubblico”.

Due grafici mostrano con chiarezza il motivo di tale affermazione. Nel panel considerato di 16 economie si osserva con chiarezza che il debito del settore pubblico sfiora ormai il 90% del Pil e quello del settore privato i 170%.

Questo tipo di deflazione è l’ennesima variante delle deflazioni possibili, diversa quindi da quella dei prezzi al consumo e diversa da quella degli asset, ognuna delle quali, come abbiamo visto, ha esiti assolutamente diversi.

Per quanto difficoltosa, l’analisi degli autori si propone di valutare la consistenza della relazione fra l’andamento dei prezzi e del debito e vedere se esiste una qualche forma di correlazione fra quest’ultimo, sia pubblico che privato, e la crescita. Per dirla con le lor oparole, il tentativo è quello di stabilire “l’intensità del link fra un rallentamento del prodotto successivo a un picco e il debito nel caso di un episodio di deflazione persistente”.

Chissà perché mi fischiano le orecchie.

Pur se con mille caveat, dovuti principalmente alla disponibilità di dati, i risultati dell’analisi mostrano un risultato che solo in parte assevera la teoria della debt-deflations.

In particolare ciò che emerge con forza è “l’interazione dannosa del debito con i prezzi degli asset, in particolare con quelli immobiliari“. O, per dirla altrimenti, “il debito rende le deflazioni dei prezzi immobiliari più costose, almeno quando interagisce con la misura del credit gap”.

Il credit gap, così come è stato definito, misura gli scostamenti negli andamenti del credito rispetto al suo trend naturale. Una sorta di boom creditizio, insomma.

“Il risultato inoltre suggerisce che un alto debito o un periodo di crescita eccessiva del debito non aumenta un modo visibile il costo della deflazione dei beni e dei servizi, al contrario di quanto accade quando si parla di deflazione degli asset, in particolare di quelli immobiliari”. E questo dimostra ancora una volta, qualora fosse ancora necessario, che ” i boom e bust finanziari, o cicli finanziari, meritano una maggiore attenzione”.

La spiegazione del perché una deflazione dei beni e dei servizi non impatti sul debito mentre quella degli immobili sì, si può trovare, scrivono gli autori, nel cosiddetto effetto-ricchezza, sul quale il mattone ha sicuramente un peso relativo importante.

Come esempio viene citato il caso americano. Gli autori hanno stimato che il costo della deflazione degli asset dopo il picco del 2008 sia stato di 9,1 trilioni di dollari per gli immobili e di 11,3 trilioni per i detentori di titoli dello S&P 500. Una ipotetica deflazione dell’1% l’anno per tre anni avrebbe provocato un costo di debt-deflation, ossia di aumento del valore del debiti privato e pubblico, di circa 1,1 trilioni, dei quali 0,4 a carico delle famiglie e il resto in parti uguali fra imprese non finanziarie e settore pubblico.

E’ chiaro insomma che una deflazione degli asset ha effetti molto più devastanti, quando il debito è alto, rispetto alla debt-deflation ipotizzata da Fisher, che esiste ma ha un peso specifico inferiore. E soprattutto, ha esiti sociali diversi. La deflazione degli asset colpisce i possessori di ricchezza. La deflazione dei beni e dei servizi ha effetti redistributivi. L’aumento del costo del debito ipotizzato da Fisher, infatti, oltre ad essere pagato da tutti, specie quando riferito al settore pubblico, arricchisce i creditori.

Come si può sintetizzare tutto ciò?

La prima conclusione che fanno gli autori è che la deflazione non è il male assoluto. Ci sono diversi tipi di deflazione e quella che ha fatto più danni, anche in tempi a noi vicini, è stata quella dei prezzi immobiliari. Inoltre, un livello di debito elevato rende costosa la deflazione, ma tale costo è assi più significativo in presenza di una deflazione degli asset. Infine, che il ciclo finanziario, ossia il boom creditizio che sostiene i picchi di valore nominale degli asset, è assai più pericoloso di quanto si pensi.

Ciò che ne ho tratto io, da questa lunga analisi, è che ciò che ci nutre (il credito) contiene il seme (il debito) che minaccia di distruggerci. E soprattutto la sensazione che la deflazione dei prezzi, che così tanta pubblicistica ha avuto ai tempi nostri, sia stata un pretesto per contrastare quella degli asset.

Il QE è servito a salvare i prezzi degli immobili e delle azioni, non quello del pane. Oltre che scaricare sui creditori parte del costo del riaggiustamento.

Ma questo si poteva capire da tempo.

Solo che non si può dire.

Gli esiti mutevoli della deflazione: il peso del debito

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