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“Partendo dal 14% circa prima della crisi, il dato attuale è al 16,3% del Pil. Sarebbe arrivato oltre il 18% senza le recenti riforme, grazie alle quali si arriverà al 13,9% nel 2060. Tra il 2010 ed il 2060 nell’area euro il rapporto peggiora di 2 punti percentuali (di 1,5 per la UE27), mentre per l’Italia migliora di 0,9”.

Sono affermazioni – del 2014 – di Vittorio Conti, ex Commissario straordinario dell’Inps. In sostanza, la spesa pensionistica negli ultimi anni è cresciuta di 2,3 punti di Pil; senza la riforma Monti-Fornero, oggi il Paese, in conseguenza del crollo del prodotto, avrebbe cancellato in un solo colpo gli effetti di un ventennio di interventi di risanamento. Ecco perché sarebbe sbagliato manomettere, nel parametro-chiave dell’età pensionabile, la riforma del 2011 come propone (al di là delle provocazioni di Matteo Salvini) il ministro Giuliano Poletti insieme al “partito trasversale” del c.d. pensionamento flessibile.

Di tale possibile opzione ha parlato – in un’intervista – anche il neo presidente dell’Inps, Tito Boeri, pur evidenziando le ostilità che, un’operazione siffatta (molto onerosa sul piano dei conti pubblici) incontrerebbe in sede Ue. Il fatto è che il pensionamento flessibile è già previsto: il decreto Salva-italia ha introdotto, nel 2011, un meccanismo “premiale” a favore di quei soggetti che ritardino l’accesso alla pensione rispetto all’età minima vigente e fino al compimento dei 70 anni (a cui si aggiunge l’aggancio automatico all’attesa di vita). Anzi, a chi compie tale scelta viene estesa, per tutta la durata del posticipo, la tutela contro il licenziamento ingiustificato.

I propugnatori della flessibilità – inclusa la Confindustria che vuole scaricare qualche centinaia di migliaia di “esuberi” sul sistema pensionistico – hanno un solo scopo: abbassare la soglia minima d’accesso, ripristinando una qualche forma di pensionamento anticipato (già sono riusciti, nella legge di stabilità, a togliere di mezzo, fino a tutto il 2017, la modesta penalizzazione economica prevista per chi, pur avendo maturato il requisito contributivo, andava in quiescenza prima dei 62 anni).

Ma come si affronterebbe la bomba dell’invecchiamento, destinata a trasformare la struttura stessa della popolazione? In Italia, l’attesa di vita media per una persona di 65 anni, che nel 2015 è pari a 18,6 anni se uomo e a 22,2 se donna, salirà a metà del secolo, rispettivamente a 22 e a 25,3 anni. Ma ci saranno più over 80 che ragazzi con meno di 14 anni, mentre raddoppierà il rapporto tra gli ultra 65enni e la popolazione in età di lavoro. Saranno proprio le esigenze del mercato del lavoro a richiedere di lavorare più a lungo; e ciò consentirà di rendere più adeguato il livello dei trattamenti.

Non avrebbe senso mandare in quiescenza, magari con un assegno modesto, persone ancora in grado di lavorare. Perché prepararsi ad avere, a breve distanza di tempo, dei vecchi poveri, quando potrebbero non esserlo, se avessero posticipato il pensionamento?

Inps, come saranno le pensioni alla Boeri

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