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“Riscoprire il ruolo dello Stato come forza propulsiva dello sviluppo”. D’Alema dixit. In un’intervista al Corriere della Sera, citando i recenti lavori dell’economista dell’innovazione Mariana Mazzuccato. E con tale lapidaria asserzione butta a mare decenni di fanfaluche elaborate intorno a fantomatiche “terze vie” di conio anglosassone, perlopiù dai think tank fioriti in era blairiana.

All’epoca in cui lo Stato veniva presentato come il “nemico principale”, si faceva affidamento sulla deregulation selvaggia per creare lavoro e ricchezza. Sappiamo come è andata a finire. E, quel che è peggio, nonostante le palesi distorsioni economiche e politiche prodotte dalla teoria e dalla pratica dell’anti-Stato, oggi si continua a perseverare nell’errore ignorando, per esempio, le lezioni di Stiglitz e di Krugman, ed ancor più gli esiti della catastrofe originata dalla mondializzazione scriteriata che ha di fatto cancellato gli Stati nazionali facendo assurgere a reggitori della vita dei popoli organizzazioni oligarchiche legittimate dal vuoto di potere venutosi a creare.

Curiosamente – ma non tanto poi, se ci pensa bene – le destre continentali (ed in speciale modo quella italiana) hanno assecondato un certo anarco-liberismo che ha letteralmente ucciso lo Stato come organismo regolatore del mercato affidando a questo i destini di vaste comunità che mai hanno coinciso, storicamente, con quelli dei burattinai che conducevano il gioco.

Che perfino lo “Stato minimo” si sia poi rivelato “Stato nemico”, in quanto vessatore fiscale ed intrinsecamente corruttore perché inefficiente burocrate e totalitario demiurgo nel gestire tecnologie invasive tese allo svuotamento delle libertà primarie, non ha indotto nessuno negli ultimi vent’anni – e tantomeno la destra, ripeto – a rialzare la bandiera dello “Stato necessario” (mi scuso: era questo il titolo di un mio libro di tredici anni fa, pubblicato quindi in piena sbornia liberista e federalista) non per riportare in auge una statolatria i cui esiti drammatici abbiamo a lungo scontato, ma per restituire alla nazione un “motore” del quale non si può fare a meno.

In altri termini, ci si sta rendendo conto – e la sortita di D’Alema è eloquente al riguardo – che non di uno Stato onnivoro si ha bisogno, ma di uno Stato migliore le cui strutture rispondano ai bisogni dei cittadini e siano all’altezza della complessità delle sfide globali (povertà, pandemie, mutamenti climatici, dissesto idrogeologico, devastazioni ambientali,  flussi migratori, minacce alla  privacy attraverso l’uso spregiudicato di nuove tecnologie, ecc.).

Probabilmente una discussione su questo tema non sarebbe fuori luogo. Innanzitutto in quel centrodestra che cerca se stesso dopo aver smarrito tutte le sue coordinate culturali e politiche.

Perché la sortita di D'Alema sul Corriere della Sera deve far riflettere anche il centrodestra

"Riscoprire il ruolo dello Stato come forza propulsiva dello sviluppo". D'Alema dixit. In un'intervista al Corriere della Sera, citando i recenti lavori dell'economista dell'innovazione Mariana Mazzuccato. E con tale lapidaria asserzione butta a mare decenni di fanfaluche elaborate intorno a fantomatiche "terze vie" di conio anglosassone, perlopiù dai think tank fioriti in era blairiana. All'epoca in cui lo Stato veniva…

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