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Le recessioni non vanno mai sprecate perché sono una formidabile occasione per riformare. Ma le recessioni sono anche uno shock che mette a nudo le debolezze di un sistema. Nelle situazioni normali o tranquille, quando la barca galleggia, debolezze e criticità restano nascoste. Poi, quando il ciclo economico volge al brutto, tutto viene a galla. E’ quanto è successo al sistema Italia con la peggiore recessione dal secondo dopoguerra. Una crisi vera, profonda che ha fatto sparire il 10% del Pil ed azzerato le capacità di crescita del Belpaese incantenato sulle politiche economiche di sempre: più tasse, più imposte, più tributi. Perché non si vuole vedere negli occhi la verità della crisi italiana. E la verità è, invece, chiarissima: è bastata una recessione con la erre maiuscola per certificare quello che tutti sapevano della pubblica amministrazione italiana. Che è un postificio costruito con decenni di lottizzazione a vantaggio dei partiti e dei sindacati e sulla pelle delle imprese e dei cittadini che competono nel mercato globale. Una macchina senza alcuna produttività che è stata messa facilmente ko dal più lungo ciclo negativo dal 1929.

Eugenio Scalfari su Repubblica ha sostenuto che ben 800 norme varate dagli esecutivi Monti e Letta sono ancora in attesa di attuazione da parte della PA. Norme pensate per attivare politiche anticicliche, quindi pro sviluppo, che una amministrazione terzomondista, del tutto irresponsabile per quello che non fa e per i danni che arreca al paese, ha lasciato marcire nei suoi cassetti ministeriali. Si possono fare decine di esempi di norme abbandonate sulla GU e mai diventate operative. Mancano i decreti amministrativi di attuazioni o le circolari ministeriali. La recessione vera ha messo alle corde la burocrazia italiana, il vero spread con il resto dell’eurozona che condanna il Pil alla stagnazione permanente. Il monopolio di una cultura giuridica formale totalmente sganciata dalla logica del risultato da conseguire è alla base di questo autentico default sistemico. Del resto, come poteva essere altrimenti. Per decenni la PA è stata militarmente occupata dalla non meritocrazia. Monopolizzata dalle assunzioni familiari, sindacali, politiche, particolari, di letto o di tessera, così è diventata un abnorme strumento keynesiano per dare finta occupazione agli amici e ai protetti. I processi sono diventati una eventualità e la qualità dei servizi da erogare a cittadini e imprese una estrazione del lotto. Il sistema burocratico italiano era già fallito negli anni novanta, ma la capacità dell’economia di produrre un minimo di crescita nascondeva questa realtà. L’ultima recessione ha tolto la maschera ed ha lasciato nuda davanti al mondo la nostra pubblica amministrazione: una truppa di giuristi fanatici dei bollini, dei timbri delle firme e della carta. Una realtà migliaia di chilometri distante dalla googlenomics dove tutto avviene in tempo reale e dove la produttività corre rapida come mai prima nella storia umana. La PA italica invece impiega oggi, in piena googlenomics, 45 giorni a far diventare operativa una piattaforma informatica che è stata partorita ben 26 mesi dopo la norma che la concepiva, il DL Cresci Italia del giugno 2012. Così nulla è salvabile, non esiste nessun eccezionalismo imprenditoriale italiano che può farsi carico di un tale fardello.

Cosa fare? In tempi non sospetti, negli anni sessanta del boom economico, uno dei più formidabili matematici che l’Italia del Novecento ha avuto, Bruno De Finetti, proponeva di fare una bad company della pubblica amministrazione per rifondarla ex novo. Ed erano anni nei quali la burocrazia italica rispetto a quella contemporanea era un gioiello.

Nel suo scritto del 1962 intitolato “ Sull’opportunità di perfezionamenti e di estensione di funzioni dei servizi anagrafici”, il padre delle tavole di mortalità ancora oggi utilizzate dall’Istat invitava ad utilizzare le nuove tecnologie dell’epoca per rivoluzionare i processi burocratici. “…gioverebbe ben poco dotare di mezzi migliori il servizio anagrafico se esso continuasse ad essere concepito come fine a sé stesso, capace di comunicare con altri solo tramite la fabbricazione di tonnellate di certificati, di cui ogni mentecatto burocrate o legislatore può obbligare i concittadini a munirsi per ogni futile motivo”, ed invitava a realizzare quella che oggi chiameremmo una pubblica amministrazione orientata ad erogare servizi in maniera univoca e da un unico punto per tutti.
Rottamare in toto la PA direbbe Renzi oggi, per rifondarne una nuova su nuove regole e con una nuova cultura. Ora, inevitabilmente, servono decisioni mai viste prima. David Cameron nel Regno Unito ha avuto il coraggio di licenziare 500mila dipendenti pubblici ed ora il suo Pil corre al +3,1%. In Italia nulla si taglia, nulla si riforma e il Pil resta incatenato allo 0%. Del resto alternative non ce ne sono: o si rivoluziona la PA oppure la burocrazia ci porta al default.

Seguiamo il modello Cameron nella pubblica amministrazione italiana?

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