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Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Secondo gli ultimi dati ISTAT disponibili (secondo trimestre 2013) il carico fiscale generale è del 43,8%, con un nostro aggiustamento previsionale (terzo trimestre 2014) che ci porta al 44,1%, sempre usando gli stessi parametri ISTAT. Gli acconti IRES, per i soggetti inseriti in questo criterio di tassazione, e ricordiamo che IRES è l’imposta (/non la sola) sul reddito delle Società, sono a 101,5% per il 2014 (e diversa, e peggiore, è la fiscalità IRES per le società finanziarie).

Troppo comunque, anche se c’è una piccola riduzione rispetto all’anno prima: nessun manager, anche il più bravo, può prevedere gli sviluppi di una società per azioni nell’anno in corso, i cicli finanziari e dei beni e servizi vanno in un ciclo di sei mesi, che nessuno, nemmeno il più esperto di insider trading, può prevedere. Inoltre, ogni tassazione sulle imprese è strutturalmente recessiva: talvolta a fin di bene, più spesso, come oggi, inutile se non al fine di far quadrare nell’anno in corso in conti pubblici. La salvezza del bilancio dello Stato è un bene primario, ma occorre pensare ad un adattamento della finanza pubblica ai cicli produttivi, non viceversa.

Se il nostro settore manifatturiero sarà chiamato ad entrare in recessione per salvare il debito pubblico, dopo che la produzione è scesa del 35% in tredici anni, dal 2000 al 2013, e questo mentre il manifatturiero mondiale cresceva del 36%, allora, dopo, non ci sarà nessuna produzione capace di estrarre il marxiano “plusvalore” dal quale si estrae a sua volta l’entrata fiscale, o almeno quella non inflattiva. Abbiamo già perso, come sistema-Paese, e nessuno ci verrà a dare una mano nella nuova geopolitica economica del bellum omnium contra omnes, 1.160.000 addetti e 120.000 imprese.

Nemmeno la II Guerra Mondiale e la guerra civile ci ridussero in queste condizioni così rapidamente. Secondo la Corte dei Conti, l’Italia è il Paese con il maggior tasso di tasse sulle imprese (il 25%) mentre siamo al 24° posto per il prelievo sui consumi. Ci sono ancora troppe remore culturali nei confronti dell’Impresa, una attività ritenuta ancora “da corsari”, e pensare che le nostre Aziende primarie sono state create da personaggi come Giovanni Agnelli, Ettore Conti, Riccardo Gualino, il conte Volpi di Misurata, per non parlare dell’indimenticabile Enzo Ferrari o di Pietro Ferrero. O di Enrico Mattei.

La nostra vittoria economica ha sempre un inevitabile riflesso geopolitico e, in prima istanza, mediterraneo. Sono o non sono questi, e moltissimi altri meno famosi, persone da porre come esempio per tutti gli italiani, e non solo per loro? Non è questo un patrimonio anche etico per noi e per il nostro futuro? Il costo del lavoro è certamente da ascrivere alla crisi del sistema produttivo. Nessun problema: si crea una sola Agenzia che raccoglie le domande di lavoro, con un capitale misto pubblico-privato, a parte le tante aziende private per la raccolta di manpower, e la si pone anche come referente per la raccolta delle quote di assicurazione sul lavoro e pensionistica.

Il principio della Riforma di Von Bismarck e Lassalle è ancora valido: una quota da parte del lavoratore, l’altra da parte del datore di lavoro. Questa Azienda paga le tasse, ma non pagano le specifiche tasse sul lavoro le aziende beneficiate dai servigi dell’Agenzia, a parte la quota pensionistica e sanitaria. E’ vero, c’è l’ evasione fiscale: ma essa si realizza principalmente nelle strutture “terziste” che sfruttano la manodopera e, appunto, dati i contratti con i concessori di lavoro, hanno come unico reddito reale quello fornito dalla pressoché totale evasione. Che è una “evasione in conto terzi” da parte di chi fornisce il lavoro ai “terzisti”. Si faccia rientrare la lavorazione in conto terzi nel normale circuito produttivo, con una trattazione fiscale arrendevole per i primi tre anni almeno, sul rientro della struttura “esterna”.

L’economia sommersa, che pesa per il 21% del PIL, ha diverse facce: c’è la azienda puramente di mafia/camorra/n’drangheta, e allora quella è questione delle Forze dell’Ordine, c’è invece il settore semilegale, che va tassato sui prodotti, c’è infine l’azienda che scende nell’illegalità perché è fuori mercato. Bene: le imprese di mafia vanno confiscate e messe all’asta, con un contratto che garantisca una efficacia fiscale, ad imprenditori di specchiata fama, quelle semilegali vanno inserite in un “programma di protezione” da parte di Confindustria locale e banche, sempre con la garanzia di una uscita verso la piena redditività fiscale. Quelle francamente decotte vanno lasciate fallire. Ma, per l’imprenditore normale, la fiscalità aziendale raggiunge la follia: un imprenditore effettua 15 pagamenti l’anno, contro la media dei 12 OCSE.

Per pagare le tasse, impiega 269 ore l’anno, contro la media di 175 OCSE, paga tasse sui profitti del 20,3%, contro il 16,1% OCSE, e paga tasse e contributi sul lavoro del 43,4% contro la media del 23,1%. Quindi, il carico fiscale italiano sulle imprese è un incredibile 65,8%, contro una media, sempre OCSE, del 41,3%. Passiamo alla proposta delle soluzioni: i pagamenti annuali delle imprese sono notoriamente troppi, riuniamoli in 2/3 da pagare allo Stato in uno-due versamenti e magari proprio alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che, come Organo del Governo, provvederà a distribuirle alle Agenzie di Competenza.

Il costo del lavoro italiano, lo sanno tutti, è eccessivo: ma è anche un meccanismo complicatissimo: facendo a 100 il costo del lavoro totale, i costi intermedi connessi all’attività produttiva sono 1,79 mentre le spese di formazione sono lo 0,2, e quindi poi le retribuzioni lorde sono il 71,5% del reddito del dipendente, il totale dei contributi sociali sul 25,4%, e le provvidenze vanno a configurare uno 0,9. Poi ci sono i contributi figurativi, il TFR che vale il 4,5%, e qualche altra inezia. Bene: le spese di formazione vanno inserite all’interno delle scuole tecniche o professionali. E’ quindi fatto obbligo agli Istituti Professionali per il Commercio, l’Agricoltura, il Turismo di farsi carico, a costi pari, dell’addestramento della manodopera già assunta. I contratti saranno obbligatori nella forma, ma l’imprenditore sarà libero di scegliere questo o quell’altro tra gli Istituti.

Non vi sono pagamenti. Certo, al buon cuore e all’intelligenza dell’Imprenditore, ci sarà il regalo di qualche computer, l’accesso agli stage in azienda, e quanto occorre, se lo vorrà, alla scuola. L’imprenditore generoso fa la buona scuola professionale. Il TFR è non con un obbligo, ma con una attenta procedura finanziaria inserito nella Banca Imprese e Lavoro, un nuovo istituto a maggioranza pubblica che raccoglie istituzionalmente i TFR rendendoli totalmente liquidizzabili al termine del contratto di lavoro, e nel mentre fa normale raccolta e credito alle imprese, e in particolare, andrà scritto nello statuto della BIL, alle Piccole e Medie Imprese e ai loro lavoratori, che godranno di un tasso di interesse agevolato rispetto al mercato standard. Vediamo se in questo modo le banche si sveglieranno.

Il totale dei contributi sociali va, naturalmente ridimensionato radicalmente: basta una quota annua per una assicurazione sociale, da stabilire in un rapporto diretto tra Imprenditore e Lavoratore, e un fondo, da generare con contributi paritari tra Lavoro e Capitale, per la disoccupazione e le malattie. Ovvero, tornare al capitalismo locale, fatto di relazioni dirette tra sindacati, lavoratori, impresa, e finirla una buona volta con i dinosauri di una amministrazione pubblica troppo grandi e onerosi per permettersi il lusso di essere efficienti. Privatizzare l’INPS? Con grande attenzione e tutela dei diritti acquisiti (e di quelli delle prossime generazioni) è una ipotesi che deve essere discussa.

Beninteso, non per dare l’immenso mercato della tutela sociale a chi non sente obblighi se non quelli per i propri azionisti, ma per rendere locale la tutela giusta dei vecchi diritti. Ritornare alle Casse Mutue d’antan? Perché no? Un consiglio di amministrazione paritario tra imprese e lavoratori (non necessariamente sindacalizzati) e un rappresentante Prefettizio il cui voto vale il doppio. Socializzare senza statalizzare. Il vecchio refrain del nostro migliore socialismo umanitario e antibolscevico, da De Amicis a Adriano Olivetti. Per non parlare dei grandi economisti cattolici come Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa

La folle guerra fiscale dell'Italia alle imprese

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