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È un’atmosfera sospesa quella che precede il prossimo ferragosto. Occhi puntati verso nord, in attesa di conoscere il grande “responso”. Sarà pace o intensificazione della guerra, visto che una soluzione intermedia appare, per lo meno, problematica. Donald Trump sarà riuscito a creare i presupposti di una pace “giusta e durevole”, come auspicato dagli europei o avrà ceduto di fronte la seduzione di Vladimir Putin: quella vecchia volpe del Kgb, sopravvissuta alla catastrofe della fine di un impero?

Il premier polacco Donald Tusk dice di “nutrire molte paure ed altrettante speranze”. Un sentimento condiviso da molti leader europei, consapevoli della portata della posta in gioco. In Alaska, terra dei ghiacci e delle lunghe notti invernali, non si sta discutendo dei destini di un piccolo lembo di terra che Putin vorrebbe far suo. Un territorio di pochi kilometri quadrati da unire al più vasto e relativamente poco abitato Paese del mondo. Si sta discutendo di qualcosa che richiama alla mente gli episodi del 1962, quando, a Cuba, la “crisi dei missili”, nello scontro tra l’America di Kennedy e la Russia di Chruščëv, tenne il mondo con il fiato sospeso.

Al momento un pericolo simile non si vede. Ma la minaccia nucleare incombe non solo nelle irresponsabili parole di Dimitri Medvedev, l’ex presidente della Federazione Russa, oggi vice presidente del suo Consiglio di sicurezza. Si respira nell’aria, soprattutto in quella ripresa della corsa agli armamenti, che risuona minacciosa nei quattro angoli del pianeta. Sono le “ombre spettrali” di cui ha parlato Sergio Mattarella, ricordando la strage nazi-fascista di Sant’Anna, che non lasciano dormire sogni tranquilli.

Finora l’Europa, nonostante l’imbarazzante presenza di alcuni negazionisti, si è comportata bene. Sulla sua azione, tuttavia, hanno pesato i ritardi del passato. Quella sua visione mercantilista che la portava ad accumulare sotto il tappeto le cose meno commestibili. Mentre la strutturazione della sua leadership, nell’asse franco-tedesco, non aveva quella visione ch’era indispensabile per padroneggiare i venti della globalizzazione: sfruttati sul piano commerciale, ma del tutto ignorati nella loro essenza più profonda. In quel grande mutamento dei rapporti di forza, tra le grandi aree del pianeta, che recavano al loro interno.

Il risveglio da questa sonnolenza è stato, per fortuna, relativamente tempestivo. Le impedirà di partecipare, a pieno titolo, in questa fase così concitata. Ma potrà essere l’inizio di una nuova storia. Che per essere credibile deve iniziare fin da ora, senza più rimanere impigliata in un passato, che non può tornare. Le premesse ci sono come mostra l’esistenza di quel “volantino nazista”, sobria definizione di Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, sulle prospettive di una “pace giusta e durevole” per l’Ucraina. In cui contano i contenuti, ma soprattutto la firma dei suoi sostenitori.

Vale la pena ricordarli, uno per uno: Giorgia Meloni, presidente del Consiglio italiano, Friedrich Merz, cancelliere tedesco, Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese, Donald Tusk, primo ministro polacco, Keir Starmer, premier del Regno Unito, Alexander Stubb, presidente finlandese, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. Ed in seconda battuta, il premier spagnolo Pedro Sànchez. Una mix tra i grandi azionisti della vecchia Europa e il presidente della Commissione, in rappresentanza di tutti i 27 membri, compresi gli assenti e le quinte colonne di Vladimir Putin.

Il loro peso complessivo è pari all’86,4% dell’attuale Pil europeo, grazie alla compensazione della presenza inglese. Quasi 8 volte quello russo (dati Fmi 2024). A sua volta la loro popolazione è pari all’84% di quella europea. Due volte e mezza quella russa. Certo Putin ha, dalla sua, il peso delle armi nucleari, ma la loro logica è only one shot. Rappresenta, in altre parole un deterrente, come quelle possedute da Francia e Gran Bretagna, ogni altra utilizzazione sembra, invece, essere preclusa.

Alla luce di queste considerazioni il divario strategico tra l’Europa dei firmatari il documento e la Russia di Putin rimane profondo. Quel nucleo di Paesi, in Europa, è in grado di attirare, come una calamita, altri protagonisti, considerando il suo peso specifico. Può quindi contenere e poi contrastare le pretese russe, qualora la sindrome da “piccola Prussia” dovesse ancora manifestarsi. Se finora questo non è avvenuto si deve soltanto ad una diversa fase storica, ormai al tramonto. In cui un’Europa, ripiegata su se stessa, aveva dovuto fare i conti con quel suo drammatico passato.

Il problema principale dei Padri fondatori, da De Gasperi a Schuman, da Monnet, ad Adenauer e Paul-Henri Spaak, era stato quello di far rimarginare le ferite prodotte da due guerre mondiali, che avevano lasciato uno strascico d’odio e un desiderio di vendetta lancinante. Mentre ai suoi confini premeva la principale forza prodotta da quelle stesse contraddizioni – vale a dire l’Unione Sovietica – che, almeno a parole, incitava all’unità del proletariato per celebrare il “sol dell’avvenir”. Non fu facile vincere quelle sfide ed, al tempo stesso, rimanere fedele ai principi di democrazia e libertà.

Oggi questa fase, salvo qualche velleitario colpo di coda, appare conclusa. Sennonché non è cambiata solo la storia europea. È cambiata anche la storia del mondo. A partire da quelle relazioni atlantiche, che in passato avevano consentito ai singoli Paesi europei di vivere nella bambagia, addossando soprattutto ad una Nato, finanziata per oltre il 70% dagli Usa, il duro lavoro della deterrenza. Oggi è la Russia di Putin che chiede il conto. Sa che nel breve periodo, l’Europa è ancora fragile. È consapevole del fatto che le nuove generazioni americane, che Donald Trump cerca di interpretare, non vogliono più fare come i loro padri: morire in Vietnam o in Afganistan. La condizione ideale per tentare di riconquistare un potere perduto, a causa della sclerosi di quei comunisti che avevano governato il Paese.

Se questo è il possibile scenario, l’Europa deve elaborare rapidamente il lutto per gli anni passati. E guardare avanti. Non è questo il momento di impastoiarsi nelle mille procedure burocratiche che hanno caratterizzato il suo viatico. Che un rinnovato spirito costituente, nel senso più ampio della parola, prenda il sopravvento tra quei Paesi che hanno mostrato volontà di resistere. Altri seguiranno. Alcuni abbandoneranno. Ma le condizioni per costruire un blocco che sappia fare da argine alle grandi correnti della storia ci sono. Non tenerne conto sarebbe molto di più di un semplice errore.

Putin chiede il conto, ma l'Europa può contenere le pretese russe. L'analisi di Polillo

Non è questo il momento per l’Europa di impastoiarsi nelle mille procedure burocratiche che hanno caratterizzato il suo viatico. Che un rinnovato spirito costituente, nel senso più ampio della parola, prenda il sopravvento tra quei Paesi che hanno mostrato volontà di resistere. Le condizioni per costruire un blocco che sappia fare da argine alle grandi correnti della storia ci sono. Non tenerne conto sarebbe molto di più di un semplice errore

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