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Tra le competenze più richieste nel mondo del lavoro c’è la capacità (e la voglia) di imparare. Una di quelle soft skills che hanno preso il posto delle più note hard skills, ovvero di quelle competenze quantificabili e misurabili in maniera oggettiva, quali la conoscenza di un software o di un linguaggio di programmazione. Nulla di stupefacente nella società liquida, nel mondo fluido e mutevole in cui siamo immersi. Questa preferenza per le soft skill dovrebbe orientare anche i percorsi formativi, soprattutto quando a organizzarli e promuoverli sono i soggetti pubblici.

Ma non funziona così. Nonostante la lievitazione del numero delle società accreditate per erogare formazione (ce ne sono più di 12mila, vuol dire una media di 600 soggetti in ogni regione italiana: uno sproposito) l’obiettivo poco ambizioso di formare 160mila disoccupati entro il 2022 è stato mancato.

I dati sono stati ripercorsi pochi giorni fa da un report accurato di Milena Gabanelli e Rita Querzé e confermano una percezione che è consolidata da tempo: il problema non sono le risorse disponibili (sono utilizzabili quasi 5 miliardi di euro in meno di cinque anni), ma l’uso che se ne fa. E sulla formazione lo spreco è sovrano, da anni. Colpa delle Regioni? In qualche modo sì, visto che a loro spetta l’onere (potrebbe essere l’onore) di creare “occupabilità” attraverso percorsi formativi adeguati alla domanda di lavoro.

Colpa della regionalizzazione? Forse. Difficile pensare che l’occupazione (e quindi la formazione) segua i profili e i confini delle Regioni. Ma anche il ruolo dell’Anpal – l’Agenzia nazionale che avrebbe dovuto coordinare le competenze regionali, per riequilibrare gli inevitabili squilibri della localizzazione – è rimasto nel limbo della sostanziale inutilità. Non esiste alcun monitoraggio nazionale sulle attività formative condotte nelle Regioni, figurarsi come si può credere a un coordinamento nella raccolta dei dati dei circa 500 Centri per l’impiego sparsi per l’Italia (che intercettano sì e no il 2% dei posti di lavoro disponibili, un’inezia!).

Vero o no che in Italia manchino un milione di lavoratori – dato condiviso qualche settimana fa dalla ministra per il Lavoro, Marina Calderone – di certo non manca il lavoro. Si cercano più di 80mila lavoratori nella ristorazione, più di 40mila addetti nel settore delle pulizie, 37mila addetti alle vendite, 20mila addetti alla logistica e altrettanti autisti, solo per indicare alcune categorie senza adeguata copertura occupazionale). Lavori poco qualificati? Mal pagati? Non si può pretendere che percorsi di studio inadeguati alle esigenze del mondo del lavoro possano produrre competenze apprezzate e valorizzate dal mercato.

Anche i timidi tentativi di alternanza scuola-lavoro sono stati spesso ostacolati in nome di una cultura anti-imprenditoriale, diffusa e coltivata da sempre nel nostro Paese (ci ricordiamo il giochino di parole tra “imprenditori” e “prenditori” che era tanto piaciuto alle schiere di “grillini” massimalisti atterrati nel Palazzo?). Vuol dire che la formazione è terreno minato, se non per i soliti noti (partiti e organizzazioni sindacali in testa). Liberalizzare no? I risultati ottenuti in questi anni dalle agenzie private per il lavoro dovrebbero indurre a rivedere profondamente il mix pubblico-privato anche in questo mondo.

È l’incrocio tra domanda e offerta guidato dal pubblico che sembra impossibile, non da oggi. Il flop consolidato dei Centri per l’impiego è stato spiegato con una carenza di risorse umane e finanziarie; ma non sembra che l’esperienza aggiuntiva – e recente – dei “navigator” abbia prodotto risultati apprezzabili, se non una nuova emergenza occupazionale, quella dei medesimi intermediari, assunti a tempo determinato per trovare lavoro ad altri aspiranti lavoratori.

La suggestione alla deregulation è forte. Perché insistere con modalità che hanno documentato solo fallimenti? Se un modello non funziona si dovrebbe cambiare. Invece si continuano a consumare risorse che certamente finiscono nelle tasche di qualcuno, peccato che non servano allo scopo per il quale sono state predisposte.

La stessa proliferazione di “academy” aziendali (ne sono state contate più o meno 150, ma si tratta di un censimento informale) ribadisce che sono le aziende le vere protagoniste della formazione e della qualificazione professionale. Per gli occupati? Sì, vero, ma forse non ha più senso che i percorsi formativi per i non occupati seguano indirizzi alieni rispetto a quelli maturati dalle imprese.

Formazione e lavoro, quando la domanda e l'offerta guidate dallo Stato non funzionano

La proliferazione di “academy” aziendali ribadisce che sono le aziende le vere protagoniste della formazione e della qualificazione professionale. Per gli occupati? Sì, vero, ma forse non ha più senso che i percorsi formativi per i non occupati seguano indirizzi alieni rispetto a quelli maturati dalle imprese. Il commento di Antonio Mastrapasqua

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