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Secondo le più recenti stime di importanti istituzioni, come l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), la Commissione europea, la Banca Mondiale e altri istituti di ricerca, il Green Deal europeo, così come l’affrancamento dai combustibili fossili a livello globale, si tradurrà in un rapido aumento del consumo e della domanda di materie prime per l’elettrificazione di trasporti e sistemi energetici.

In un contesto di irrigidimento delle catene di fornitura e di crescente competizione geoeconomica, la necessità di assicurarsi un accesso sicuro e stabile ad una lunga lista di materie prime critiche che, nel caso dell’Unione Europea, conta 30 elementi tra cui litio, cobalto, gallio, germanio e soprattutto terre rare si fa impellente. Nel 2020 le importazioni dalla Cina soddisfavano circa il 44% della domanda europea di materie prime critiche, seguite da Repubblica Democratica del Congo, Turchia e una pletora di paesi dell’America Latina (Argentina e Cile in primo luogo) e molti altri tra cui Indonesia e Australia.

La lenta presa di coscienza dell’UE della dipendenza da paesi terzi su più stadi della supply chain ha reso quindi necessario ricorrere ad una nuova strategia, che prevedesse non solo la diversificazione delle forniture e il ricorso al riciclo, ma anche nuovi investimenti in progetti minerari sul suolo europeo per prepararsi a potenziali e prevedibili shock dell’offerta, come sta avvenendo per gli approvvigionamenti di gas dalla Russia. Da qui l’annuncio della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, della necessità di promuovere un Critical Raw Materials Act per affrontare le carenze dei 27 in un settore ormai strategico.

Allo stato attuale, sono in corso di valutazione 11 progetti di estrazione di litio che, potenzialmente, una volta operativi, potrebbero soddisfare il 38% della domanda di litio europea entro il 2030, mentre altri 14 progetti sono stati identificati lungo la filiera delle terre rare dall’European Raw Materials Alliance (ERMA) per coprire almeno il 20% del consumo europeo entro la fine del decennio.

Una crescita esponenziale dettata dalla necessità di accelerare la transizione energetica, cercando tuttavia di non cedere lo scettro industriale a paesi, come la Cina, ben posizionati per capitalizzare quote di mercato e così acquisire uno standing geostrategico per i settori del futuro: mobilità elettrica, turbine eoliche e pannelli fotovoltaici, senza contare le infrastrutture digitali.

Anche l’Italia sconta un ritardo molto importante nel settore degli approvvigionamenti, restando un grande importatore di materie prime. Secondo le stime di Ambrosetti in un report presentato lo scorso giungo, è di circa 564 miliardi di euro (il 32% del PIL nazionale) il valore associato agli ecosistemi industriali che ruotano intorno all’utilizzo delle materie prime critiche.

In questo contesto, l’annuncio dell’Università di Ferrara potrebbe rendere la Sardegna una regione protagonista in questo nuovo super-ciclo nel settore minerario. Secondo lo studio – presentato nell’ateneo durante la fiera RemTech Expo sulle tecnologie ambientali, uno dei primi output del progetto di ricerca REGS II “Recycling of granite scraps” finanziato con fondi europei LIFE e di “Waste Treatment: reperimento di Critical Raw Materials dalle discariche di sfridi di rocce ornamentali granitoidi”, sostenuto dal programma di finanziamento PON REACT-EU – nella cava di Buddusò, in provincia di Sassari, si troverebbe uno dei più significativi e potenziali giacimenti di materie prime critiche in Europa.

“Dalle prime analisi del nostro progetto è emerso che le discariche del distretto lapideo di Buddusò e della Gallura consentiranno all’Italia e all’Europa di superare le difficoltà di attuazione del Green Deal Europeo causate dalle limitazioni di reperimento dei metalli critici necessari per la transizione ecologica e digitale”, ha commentato Elena Marocchino, ricercatrice e co-responsabile del progetto insieme a Camela Vaccaro, Professoressa del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Prevenzione dell’ateneo emiliano.

Le prime stime sembrano, infatti, incoraggianti. I graniti di Buddusò conterrebbero “elevate percentuali (fino al 15%) di allanite, un minerale magmatico raro che si caratterizza per essere ricco di terre rare […] e interessanti quantità di ferro, tantalio e niobio”, conferma Antonello Aquiliano, ricercatore del progetto. “Si distinguono da altri graniti per concentrazioni utili di germanio e gallio, elementi importanti per la produzione di componenti green come ad esempio pannelli solari”.

Si tratta di un importante scoperta, che si accoda ad altri progetti di estrazione in Europa e in Italia, come quello del litio dalle fonti geotermiche nel Lazio, ma che aldilà degli annunci potrà avere ripercussioni sul mercato soltanto quando saranno note ulteriori stime delle potenzialità estrattive e i costi per un impianto di arricchimento, al fine di ottimizzare l’estrazione delle materie prime dagli scarti di granito.

Le terre rare sono 17 elementi che compaiono insieme e mediamente in abbondanza in natura, ma in concentrazioni spesso molto ridotte che ne limitano l’economicità dell’estrazione. L’allanite è una delle tante famiglie mineralogiche ospitanti, come la monazite nei giacimenti tra i più estesi, che tuttavia non sempre presentano elevate quantità di terre rare rispetto al minerale in una ratio che sia commercialmente bilanciata a quelle più richieste sul mercato, come quelle “leggere”, come neodimio e praseodimio, e “pesanti”, come disprosio e terbio necessarie per i prodotti ad alto valore aggiunto, come i magneti e la componentistica elettronica.

Una proporzione che conta, soprattutto se sbilanciata verso elementi, come cerio e lantanio, già in sovra-offerta sul mercato e che potrebbe declassare il valore economico di un giacimento. È questa dinamica che mette i prospetti geologici alla mercé del mercato globale.

Lo scorso luglio, l’annuncio della Turchia della scoperta di importanti risorse di terre rare da 694 milioni di tonnellate (una cifra che potrebbe in teoria soddisfare la domanda globale per centinaia di anni) nel sito di Beylikova, nell’Anatolia Centrale, aveva stuzzicato l’immaginazione di molti di un possibile affrancamento dalla dipendenza cinese, ad oggi responsabile dell’estrazione di circa il 63% della materia prima a livello mondiale.

Tuttavia, ad uno sguardo più analitico è evidente che il dato è grezzo perché riferito al tonnellaggio del minerale, non dei metalli. Considerando gli ossidi di terre rare potenzialmente sfruttabili dal sito anatolico, si tratterebbe di stime vicine allo 0.2 e il 2%, ovvero 14 milioni di tonnellate di ossidi, ben al di sotto delle riserve cinesi, pari a circa 44 milioni di tonnellate. Stime che tuttavia non considerano i fondamentali del mercato, ovvero i prezzi che, ad oggi, sono dettati dall’oligopolio industriale cinese.

Infine, resta il nodo trasformativo. Prima di poter essere utilizzati sul mercato, i concentrati di terre rare devono essere separati per ottenere ossidi e poi subire una “metalizzazione” che li renda utilizzabili nel processo di fabbricazione dei magneti: un processo altamente energivoro e ambientalmente impattante, per l’utilizzo di reagenti chimici, che attualmente vede la Cina dominare tra l’80 e il 90% del mercato.

In conclusione, la dipendenza nel settore delle materie prime critiche, e in particolare per le terre rare, è destinata a rimanere consistente nel prossimo decennio, soprattutto se al fianco di un necessario e auspicato ritorno agli investimenti upstream (esplorativi, ricerca & sviluppo oltre a quelli infrastrutturali) non saranno prioritizzati nuovi siti di trasformazione che, allo stato attuale considerati i costi dell’energia, rimangono fortemente a rischio per la durissima competizione delle industrie cinesi lungo tutta la filiera.

(Foto: cava di granito a Buddusò, da Wikipedia)

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