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Quella che ci sarà domani, giovedì 29 luglio, è una telefonata programmata, ma questo quinto contatto tra Joe Biden e Xi Jinping è accompagnato dalle tensioni procurate dall’annuncio della Speaker della Camera, la storica congressista democratica Nancy Pelosi, sulla volontà di recarsi a Taipei per mostrare sostegno all’isola. La visita sarebbe una tappa del tour asiatico di inizio agosto tra Giappone, Singapore, Indonesia e Malesia.

Taiwan per la Repubblica popolare cinese è una provincia ribelle che va annessa al mainland, perché Pechino non può concepire l’esistenza di un’altra Cina. Sarebbe un’ambiguità strategica; sarebbe difficilmente concepibile proiettare la propria potenza globale senza riuscire a risolvere i propri problemi casalinghi. Il concetto di un’unica Cina (“One China”) è uno dei pilastri attorno a cui sono costruite le relazioni diplomatiche tra Pechino e Washington – e non solo. Il rischio che la Cina promuova una campagna militare nei prossimi anni è concreto (alcuni scenari lo considerano 1 su 3), mentre resta possibile che la caduta di Taiwan avvenga con operazioni ibride (golpe e destabilizzazione di vario genere).

La conversazione telefonica tra il segretario del Partito comunista cinese, il capo di stato Xi, e il presidente americano doveva riguardare – come spesso succede in questi casi – un’ampia gamma di argomenti, ma la visita di Pelosi è diventata un tema prioritario. La Cina ha già avvertito che potrebbe essere vista come una provocazione, per altro di carattere militare (i leader del Congresso che visitano l’isola solitamente si muovono con cargo militari, ma Pechino potrebbe usare questa prassi per proteggere e spingere la propria narrazione).

Sia la Casa Bianca che il Pentagono hanno espresso parere sfavorevole al viaggio della presidente della Camera, sebbene non abbiano né l’una né l’altro autorità per fermare la decisione di Pelosi. Ma stanno facendo pressione: il Pentagono sta comunicando ai media che il rischio è che eventuali tensioni e ritorsioni si possano sfogare sul Mar Cinese o lungo lo Stretto di Taiwan. Il quadrante è caldissimo – la Cina rivendica quasi la sovranità su tutte quelle acque, gli Stati Uniti sono presenti per operazioni di libera navigazione (FONOP in gergo tecnico). Il rischio di incidenti è alto.

Come lo stesso generale Mark Milley, capo dello Stato maggiore congiunto statunitense, ha ricordato – quando dall’Indonesia denunciava le attività aggressive e provocatorie della Cina nei cieli dell’Indo Pacifico – la possibilità di conflitto tra Pechino e Washington è anche molto connessa a un incidente. Un’operazione avventata che va storta, una collisione in mare o in cielo, e le conseguenze potrebbero essere incontrollabili. Anche l’assistente del segretario alla Difesa per gli affari Indo Pacifico, Ely Ratner, è sulla stessa posizione: i cinesi stanno “testando i limiti” statunitensi con azioni aggressive che possono essere molto pericolose, ha detto durante un evento del CSIS.

Milley, che ha declinato commenti diretti sul viaggio della leader congressista davanti a una domanda postagli dai giornalisti a Sydney, ha aggiunto che tuttavia i militari americani sono pronti a proteggere ogni viaggio dei congressisti – affermazione che serve anche a bilanciare le posizioni prese (anche se non ufficialmente) dal Pentagono contro il viaggio di Pelosi.

La Cina è particolarmente preoccupata dalla visita di Pelosi perché è la seconda in ordine di successione alla presidenza. Inoltre, sarebbe il più anziano legislatore statunitense a visitare Taiwan dal 1997, anno in cui Newt Gingrich, allora presidente repubblicano della Camera, vi si recò. Per i cinesi è preoccupante che Pelosi e Biden siano dello stesso partito: quando Gingrich viaggiò a Taipei il presidente era Bill Clinton e questo creava un livello di ambiguità, perché Pechino poteva trovare spazio per raccontare divisioni interne tra i due schieramenti.

Divisioni che per altro adesso non esistono, tant’è che i principali consensi sul viaggio di Pelosi arrivano dal fronte repubblicano, che tuttavia li usa anche per mettere in difficoltà Biden. In questa costante campagna elettorale che è ormai la polarizzata politica statunitense, in vista delle elezioni di metà mandato sottolineare punti di vista differenti tra le varie componenti dei Dem è utile per muovere consensi.

Nella semplificazione cinese, il presidente dovrebbe bloccare il viaggio, ma in realtà la Casa Bianca non ha facoltà totali come quelle del segretario Xi. Biden può provare a convincere Pelosi, che però non facilmente si tirerà indietro a questo punto. Più probabile che il leader statunitense cercherà di rassicurare Xi che lui non appoggia la visita della democratica (almeno formalmente) e che non si tratta di un velato tentativo degli Stati Uniti di alterare lo status quo.

La situazione è piuttosto delicata, perché l’amministrazione Biden proprio su Taiwan ha preso posizioni particolari. Pechino non si sente affatto rassicurata sul mantenimento in futuro della One China policy e sul non appoggio americano alle eventuali volontà di indipendenza di Taiwan. Mentre era in visita a Tokyo, il 23 maggio, per la seconda volta in meno di un anno, Biden ha abbandonato pubblicamente l’ambiguità strategica dichiarando chel’esercito degli Stati Uniti interverrebbe in difesa dell’isola in caso di aggressione cinese.

Non è chiaro quanto sia stata un’uscita infelice, una provocazione, o un linea rossa. Anche in quell’occasione Pechino aveva pesantemente criticato la posizione del presidente. Per la Cina il destino di Taiwan è tra le prime preoccupazioni strategiche, molto più di ciò che è (un centro tecnologico globale), come detto il Paese conta per quel che rappresenta. Anche in questa occasione, Washington può rivendicare (più o meno apertamente) di aver messo in difficoltà Xi per una semplice visita di una congressista.

Tuttavia pure Taiwan è preoccupata: teme che la posizione assunta dal presidente contro la visita di Pelosi non si abbini alla linea tenuta finora da questa Casa Bianca. A Taipei vedono queste incoerenze come un problema che mette a rischio la sicurezza dell’isola. La situazione ha stretto un nodo: da una parte si teme che la cancellazione del viaggio dimostri un’incertezza americana (un arretramento davanti alla tattica di intimidazione cinese), dall’altra c’è il rischio che se la visita dovesse avvenire la Cina possa muoversi in ritorsione aggressiva.

Alexander Huang, rappresentante dell’opposizione del Kuomintang (KMT) a Washington, ha detto al Financial Times che spetta al governo statunitense e all’ufficio della Pelosi stabilire se una visita sia nell’interesse generale degli Stati Uniti e di Taiwan, “ma l’intero episodio non è affatto costruttivo per nessuna delle due parti”. “Se Pelosi viene, quando la Cina reagisce, dobbiamo rispondere anche se non siamo noi i promotori”, ha detto Huang, aggiungendo di parlare in qualità di esperto di relazioni tra le due sponde dello Stretto e di questioni di sicurezza e non a nome del KMT: “Se decidesse di non venire, solleverebbe il sospetto che la Cina abbia ora un maggiore potere di influenzare le decisioni americane”.

La questione della visita ha sorpassato ogni altro dossier dell’agenda prevista per la telefonata. In ballo ci sarebbe anche l’eliminazione di alcuni delle misure commerciali prese dall’amministrazione Trump. Non è chiaro se certi argomenti verranno trattati, e forse non solo per via del viaggio di Pelosi, che tuttavia rischia di aprire la Quarta crisi sullo Stretto di Taiwan. Anche perché Xi sembra interessato a mantenere una posizione severa, anche in vista dell’importante 20esimo Congresso del Partito che si terrà a fine anno.

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