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Tic toc, tic toc. Scorre inesorabile la sabbia nella clessidra della crisi. Sono rimaste una settantina di ore all’appuntamento al Senato di Mario Draghi, quando la crisi verrà come si dice parlamentarizzata. Quando cioè sarà troppo tardi, quando i giochi saranno fatti e non resterà che ascoltare il de profundis delle larghe intese confermato dal presidente del Consiglio. È possibile che da quella certificazione di morte resusciti un altro governo oppure lo stesso amputato di tutto o di una fetta dei Cinquestelle?

È il miracolo nel quale sperano in tanti e per il quale tanti si danno da fare. Mettendo sul tappeto le forti e giustificate preoccupazioni riguardo gli impegni da rispettare, il Pnrr da radicare, le questioni geo-politiche prodotte dalla guerra tra Russia e Ucraina da affrontare. E anche su questa base poggia il pressing delle cancellerie internazionali, a partire dalla Casa Bianca, affinché non cada quello che era diventato un punto di riferimento forte e riconosciuto: il capo del governo italiano. Per non parlare degli effetti nefasti prodotti dal precipizio delle elezioni anticipate, un esito che il Quirinale, comprensibilmente e saggiamente, vorrebbe evitare ma al quale si prepara se ogni strada risultasse sbarrata.

Chissà. Forse per avere qualche lume è necessario riandare ad un passaggio già esaminato da chi scrive in modo rovesciato rispetto al quale è stato interpretato. Bisogna cioè andare all’ammonimento rivolto proprio dall’inquilino di palazzo Chigi all’indirizzo dei rischi prodotti dal populismo. Che si annidano nella penuria di gas che vivremo questo inverno e che possono alimentare pericolosi focolai di protesta sociale, il brodo di coltura preferito dai gilet gialli in versione nostrana.

“Dobbiamo evitare gli errori commessi dopo la crisi del 2008 – spiegò infatti Draghi all’indomani del Consiglio europeo di fine giugno – la crisi energetica non deve produrre un ritorno del populismo. Abbiamo gli strumenti per farlo: dobbiamo mitigare l’impatto dell’aumento dei prezzi dell’energia, compensare le famiglie e le imprese in difficoltà, tassare le aziende che fanno profitti straordinari”. Concetti in buona parte poi riversati in provvedimenti compreso il decreto Aiuti che il M5S non ha votato rifiutando il pronunciamento di fiducia chiesto da palazzo Chigi, e che ora Giuseppe Conte giustifica dicendo che quel no non riguardava i contenuti ma “era a causa delle umiliazioni subite”.

Appunto. Il tiro si può infatti allargare sul populismo brandito riprendendo concetti che il capo del governo ha recentemente espresso con forza. “Serve un’azione di governo che renda il populismo non necessario”, ha spiegato Draghi in conferenza stampa. “Il populismo spesso è insoddisfazione, isolamento, alienazione. Questi temi si sconfiggono con un’azione di governo che risponda ai bisogni dei cittadini, ai bisogni degli italiani”.

Ecco, forse il punto sta qui. Quelle parole furono interpretate come la voglia di un presidente del Consiglio “tecnico” di avviare un percorso politico. Invece adesso si capisce ancor meglio che erano il testamento di un servitore dello Stato che avverte arrivare su di sé e sul Paese l’onda alta di un fenomeno che se non fronteggiato con determinazione e coesione può spazzare via ogni sforzo e svellere ogni bandiera piantata dal buongoverno.

Forse è questo che Mario Draghi vede. Una sorta di tsunami che le larghe intese e lo spirito di intesa che erano alla base del suo tentativo ispirato dal Colle dovevano arginare e che al contrario ora rischiano di essere sommerse visto che le trincee non sono più così salde.

Se è così – e i concetti espressi nell’addio i Consiglio dei ministri prima della salita al Colle vanno in questa direzione – il percorso è segnato, la crisi inevitabile, le dimissioni obbligate. C’è chi prova, invertendo la razionalità dei fatti, ad accusare Draghi di essere un novello Schettino, di voler abbandonare la nave ora che barcolla vistosamente. Magari vale il contrario, magari chi avanza queste accuse dovrebbe domandarsi il senso di aver minato il vascello con falle sotto la linea di galleggiamento. O ponendo continui ultimatum con i quali, sono sempre parole di Draghi, “non si governa”.

Ma se davvero il punto nodale è il populismo, non possono essere circonvoluzioni procedurali o esecutivi in un modo o nell’altro rabberciati a sanare la situazione. Debbono essere i cittadini a farlo. Nel 2018 assegnarono a M5S e Lega le chiavi della legislatura. Ora possono recapitarle in altri mani, se credono. Quelle di Draghi sono impegnate in un saluto volutamente di commiato. E l’errore più grande sarebbe costringere un premier ad andare avanti sapendo che non può governare. Anche questo alimenta il populismo. Non è, non può essere la scelta di SuperMario.

Per capire cosa succederà mercoledì, leggere le parole di Draghi

Si torna all’ammonimento dell’inquilino di Palazzo Chigi sui rischi prodotti dal populismo. Il testamento di un servitore dello Stato che avverte arrivare l’onda alta di un fenomeno che può spazzare via ogni sforzo di buongoverno. Il mosaico di Fusi

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