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Si sta allargando il confronto tech tra Stati Uniti e Cina sul campo dei semiconduttori, che data la sua importanza crescente promette di essere una delle partite più calde del secolo. Washington (con Bruxelles) è impegnata a ricostruire e sviluppare la propria industria nazionale di chip avanzati. E mentre accelera la corsa punta anche a ostacolare la rivale sistemica, attraverso il controllo delle esportazioni, per batterla al traguardo.

Pechino, che finora ha beneficiato di due decenni di outsourcing, punta all’autonomia strategica nel comparto semiconduttori e registra importanti progressi. Ma dipende ancora dalla tecnologia statunitense per espandere i limiti delle proprie capacità manifatturiere. Così gli Usa, consci di questo punto di pressione, stanno espandendo il ventaglio delle modalità con cui se ne avvantaggiano.

Da anni la Cina non può acquistare i macchinari a litografia ultravioletta estrema, necessari per produrre i chip logici più avanzati (sotto i sette nanometri). Oggi, intenzionato a ridurre i vantaggi regalati al rivale, lo zio Sam sta meditando di tagliargli l’accesso a molte più tecnologie, come quella per produrre chip logici meno avanzati e quella per i chip di memoria flash.

Si tratta di una lista crescente che potrebbe diventare definitiva nelle prossime settimane. L’ultima aggiunta, secondo Protocol, sarebbero i programmi più all’avanguardia per la progettazione dei chip per l’intelligenza artificiale (IA), altro campo di altissimo valore strategico in cui gli Usa temono il sorpasso. E come le altre misure, mira a colpire i primissimi snodi della catena di produzione cinese.

La misura, dicono le fonti della testata, interessa una tecnica di automazione della progettazione elettronica, emergente nota come gate all around. Non impatta (o quasi) la produzione attuale, ma lo farà esponenzialmente in futuro, impedendo alle compagnie cinesi di aggiornare i propri processi produttivi. Colpisce anche le aziende occidentali – come le statunitensi Cadence e Synopsys, o la tedesca Siemens – che vendono il software alla Cina.

Lo stesso problema, ma molto più in grande, riguarda tutte le aziende produttrici di semiconduttori con delle fabbriche in Cina. È una conseguenza del maxi-pacchetto da 280 miliardi di dollari, noto come Chips+ Act, con cui gli Stati Uniti offriranno oltre 50 miliardi in sovvenzioni alle aziende. A una condizione: le beneficiarie dei fondi statunitensi non potranno espandere le loro attività cinesi per dieci anni.

Come riportano il Financial Times e Nikkei, questa misura sta già spingendo i titani del settore come le coreane Samsung e SK Hynix a ridimensionare le proprie operazioni in Cina. Sono previste eccezioni per proteggere gli interessi locali delle aziende, ma solo per le fabbriche esistenti e solo per i semiconduttori più obsoleti – dai 28 nanometri in su.

Del resto, il decoupling era già nell’aria. Le americane come Intel e Qualcomm (tre le leader nel mercato cinese di semiconduttori avanzati) stavano già ridimensionando le operazioni cinesi. In più, quando il Chips+ Act esisteva solo sulla carta, diverse aziende avevano già promesso che avrebbero investito negli Stati Uniti: la taiwanese Tsmc ha messo sul piatto 12 miliardi di dollari, Samsung 17, SK Hynix (solo recentemente) 15. Numeri che non si vedono sul evrsante cinese.

Quella delle aziende è una scelta obbligata: per quanto possa essere lucrativo il mercato cinese, queste aziende sanno di non poter continuare le loro operazioni senza le tecnologie americane (ed europee, specie nel campo della litografia). E Washington, vista l’assertività crescente di Pechino, intende volgere la situazione a proprio vantaggio.

Un’intenzione che terrorizza la Cina, la quale si è già scagliata rabbiosamente contro “la mentalità da guerra fredda e del gioco a somma zero” del Chips+ Act. Ma del resto le chipmaker si chiedono anche quanto valga la pena di investire nel mercato cinese, considerano che il piano di autonomia strategica di Xi Jinping mira a portare la quota di chip prodotti in casa al 70% entro il 2025.

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