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Due funzionari del governo israeliano hanno raccontato a Barak Ravid che l’Arabia Saudita ha provato a mettersi di traverso nell’accordo di sviluppo a tre tra Israele, Emirati Arabi e Giordania che tre giorni fa è stato siglato alla presenza dell’inviato speciale per il Clima della Casa Bianca, John Kerry.

Ravid è un giornalista israeliano che lavora per il sito statunitense Axios, dove pubblica lo scoop: è sempre molto informato, e spesso quelle informazioni gli vengono passate come via di uscita pubblica di questioni che hanno un valore ampio nella big picture. Questo è uno di quei casi.

L’accordo firmato lunedì con la benedizione statunitense ruota attorno al più grande progetto di energia rinnovabile nella regione: gli Emirati costruiranno in Giordania un impianto solare con il quale verrà fornita elettricità a Israele, e in cambio Israele costruirà un impianto di dissalazione per fornire acqua alla Giordania (Gerusalemme e Amman avevano già iniziato ad ammorbidire le tensioni attorno alle questioni idriche).

Però l’intesa è soprattutto una forma operativa di cosa gli Accordi di Abramo – la normalizzazione dei rapporti tra stato ebraico e parti del mondo arabo catalizzata da Washington – possano rappresentare. Quando la notizia del progetto a tre è stata data (sempre da Axios) i sauditi sono stati presi di sorpresa, hanno spiegato i funzionari israeliani a Ravid, e hanno provato a mettersi di traverso. Una reazione scomposta – dato che è quasi subito uscita sui media anche quella.

Tutte le fonti dicono che i funzionari sauditi erano arrabbiati perché sentivano che l’accordo potesse minare i piani del principe ereditario Mohammed bin Salman di guidare la regione sul clima attraverso la sua visione del “Medio Oriente verde”. L’erede al trono e factotum di Riad ha scommesso molto sulla transizione energetica e sulle nuove forme di economia collegate, sia come progetto futuribile per differenziare il suo Paese dal petrolio, sia come forma per rappresentare l’immagine del proprio regno come attore proiettato verso lo sviluppo. Tutto utile in una fase in cui l’immagine internazionale di bin Salman non è così forte come qualche anno fa.

Gli Emirati Arabi Uniti e Israele sono stati in grado di negoziare l’intesa grazie agli accordi di Abraham, ma i sauditi non hanno relazioni diplomatiche con Israele e quindi sono stati lasciati fuori. Alti funzionari sauditi hanno chiamato le loro controparti emiratine per protestare e spingerle a rinunciare all’accordo, proponendo un piano alternativo tra Abu Dhabi, Riad e Amman, che avrebbe messo da parte Israele.

Gli emiratini hanno informato Kerry e le loro controparti israeliane e giordane della pressione saudita e hanno chiesto modifiche che Ravid definisce “cosmetiche” al linguaggio inserito nei memorandum di intesa del progetto: un modo per placare i sauditi. Le altre parti non si sono opposte. La firma dell’accordo è stata ritardata per diverse ore lunedì a causa dell’intervento saudita, dicono i funzionari israeliani. Tutto con Kerry in attesa di trasformare la firma in una photo-opportunity per raccontare il corso del nuovo Medio Oriente secondo gli Usa.

Val la pena qui notare che Kerry è una figura di spicco della presidenza di Joe Biden che sta rivedendo il rapporto con Riad, riposizionandolo su canali di dialogo e contatto più classici e meno squilibrati di quando Donald Trump e famiglia negoziavano in forma diretta e personale le relazioni Washington-Riad.

Il ribilanciamento delle relazioni con gli americani è uno degli elementi che innervosisce i sauditi. Per ragioni legate al ruolo cruciale che il regno occupa nel mondo islamico – custode dei luoghi sacri – per Riad è molto difficile, se non impossibile, accedere a un sistema di intese e cooperazioni come quello degli Accordi di Abramo. Questo, insieme alla politica di contatto che l’amministrazione Biden cerca con l’Iran (rivale strategico saudita) e al disimpegno statunitense dall’area MENA, mette Raid in una posizione di isolamento ed esclusione – e dunque di sofferenza.

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