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Dopo la vicenda della proposta di legge Zan, il segretario del Partito democratico Enrico Letta dovrebbe fare attenzione a maneggiare con cura un’altra aggiunta che vorrebbe fare apportare ad un già complesso, e pesante, programma di governo e di legislazione: lo ius soli.

Occorre, innanzitutto, chiarire di cosa di parla. Le enciclopedie ci dicono che lo jus soli (in lingua latina “diritto del suolo”) è un’espressione giuridica che indica l’acquisizione della cittadinanza di un dato Paese come conseguenza del fatto giuridico di essere nati sul suo territorio, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. Si contrappone allo ius sanguinis (o “diritto del sangue”), che indica invece la trasmissione alla prole della cittadinanza dei genitori, o di un genitore, sulla base pertanto della discendenza e non del luogo di nascita. Quasi tutti i Paesi del continente americano applicano lo ius soli in modo automatico e senza condizioni. Tra questi gli Stati Uniti, il Canada e gran parte dell’America latina; la ragione è che sono Stati nati dall’immigrazione europea, spesso in conflitto con gli autoctoni. Alcuni Stati europei (Francia, Germania, Irlanda e Regno Unito) concedono altresì la cittadinanza ius soli, sebbene con alcune condizioni.

Lo ius soli automatico non è necessariamente un vantaggio. Lo sanno bene i miei figli, nati ambedue a Washington DC negli Stati Uniti (dove ho vissuto più di tre lustri). Non avendo ufficialmente e formalmente rinunciato alla nazionalità americana al compimento dei 18 anni (e prima di compierne 19), ora a ragione di modifiche nella normativa tributaria americana, hanno a che fare con due autorità fiscali, con regole differenti e devono, quindi, compilare due differenti dichiarazioni dei redditi e del patrimonio, utilizzando per quella Usa un commercialista oltreoceano. L’accordo per evitare la doppia imposizione, infatti, non riguarda investimenti, il cui plusvalore negli Usa viene a fini tributari computato giorno per giorno, non quando viene realizzato (di norma alla vendita).

In Italia, lo ius soli è già in applicazione delle norme che mirano a scongiurare l’apolidia. Si tratta di circostanze eccezionali, essenzialmente:

  • per nascita sul territorio italiano da genitori ignoti;
  • per nascita sul territorio italiano da genitori apolidi;
  • per nascita sul territorio italiano da genitori stranieri impossibilitati a trasmettere al soggetto la propria cittadinanza secondo la legge dello Stato di provenienza.

Inoltre, in virtù dell’art. 4, comma 2, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, una versione particolare dello ius soli è applicata allo straniero nato in Italia e che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età. Infatti, in tal caso, egli diviene cittadino italiano di diritto se dichiara di voler acquisire la cittadinanza italiana entro un anno dal raggiungimento degli anni diciotto di età, quindi senza le condizioni normalmente richieste (reddito sufficiente, impiego, circostanze di merito, ecc.) per ottenere la cittadinanza tramite naturalizzazione. Tale beneficio viene perso in mancanza di volontà espressa entro un anno dal raggiungimento della maggiore età, dopo di che la cittadinanza è ottenibile.

Cosa succede se si nasce in Italia da genitori stranieri? Una esperta non italiana, ma capoverdiana (e presidente dell’Associazione delle Donne Capoverdiane in Italia), Sonia Lima Morals, ha scritto un saggio che Enrico Letta farebbe bene a leggere per non incappare in un nuovo tentativo di creare (a ragione o a torto) in una nuova “religione di Stato” successivamente bocciata da Parlamento (ed anche forse da opinione pubblica). Il saggio inizia precisando che “la cittadinanza non rappresenta solo un fatto giuridico ma anche sociale ed economico…la persona diventa titolare di diritti civili, politici e sociali, ma anche di doveri come quelli del lavoro, del voto e della contribuzione al finanziamento della spesa pubblica”.

Attualmente, la seconda generazione ha diritto a chiedere la cittadinanza italiana al compimento del diciottesimo anno ma la finestra resta aperta un solo anno (come per la rinuncia alla cittadinanza americana nel caso dei miei figli). Se non si è riesce a procurarsi la documentazione per tempo, si rischia di perdere il treno. Se, poi, per un periodo la persona non è stata residente in Italia (la famiglia è tornata in patria per un motivo o per l’altro o – cosa frequente per i figli degli asiatici – si è mandati a vivere dai nonni per apprendere la lingua locale), si perde il diritto a fare domanda.

Sarebbe utile rivedere questi aspetti per rendere più accessibile il diritto alla cittadinanza che ius soli non è, ma che è ciò a cui ambiscono gran parte degli figli di immigrati. È sufficiente modificare queste due condizioni; ad esempio, portare la finestra da uno a tre anni, permettere residenze temporanee nella patria dei genitori, stabilendone i paletti in modo chiaro. Per acquisire una larga maggioranza di consenso, anche parlamentare, sarebbe utile prevedere anche che chi vuole avere la cittadinanza italiana ne conosca la cultura, la Costituzione, le regole di base. Ossia che abbia studiato in Italia (ciò che alcuni chiamano ius culturae) e, se del caso, sostenga un esame di cultura italiana, come avviene in molti Paesi. Ciò renderebbe possibile estendere il diritto alla cittadinanza anche a chi non è nato in suolo italiano ma vi è arrivato bambino ed italiano si sente, avendone assorbito la cultura.

Per redigere l’eventuale proposta di legge, un suggerimento: affidarsi a qualcuno meno apodittico di chi ha redatto il provvedimento che va sotto il nome del senatore Zan.

Le trappole dello ius soli. L'analisi di Pennisi

Il segretario del Partito democratico Enrico Letta, dopo quanto successo in Aula sulla proposta di legge Zan, dovrebbe fare attenzione a maneggiare con cura un’altra aggiunta che vorrebbe fare apportare ad un già complesso, e pesante, programma di governo e di legislazione: lo ius soli

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