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Un caso come quello greco del Pireo in Italia “non potrebbe realizzarsi”, a meno di un “cambiamento alla natura delle autorità pubbliche, che sono un soggetto regolatore”. Ne è convinto Alberto Pagani, deputato del Partito democratico e membro della commissione Difesa della Camera e della delegazione parlamentare presso l’Assemblea parlamentare della Nato, interpellato da Formiche.net.

Nei giorni scorsi avevamo raccontato le preoccupazioni del governo italiano rispetto al piano di investimenti presentato da due aziende cinesi statali, Cosco Shipping Ports e China Merchants Port Holdings, per realizzare e gestire nel porto di Palermo una megapiattaforma per il trasporto di container. “Il porto di Palermo deve sfuggire alle mire commerciali o espansionistiche cinesi”, aveva dichiarato Giorgio Mulè, sottosegretario alla Difesa e deputato di Forza Italia, a Formiche.net. E aveva aggiunto: “È imprescindibile che quel porto sia gestito da aziende italiane”.

Secondo Andrea Delmastro Delle Vedove, deputato di Fratelli d’Italia e membro della commissione Esteri della Camera, non si tratterebbe di un affare, bensì di una “trappola”. “Se al governo ci fossimo noi, che abbiamo sempre criticato l’improvvida Via della Seta”, ha detto dai banchi dell’opposizione a Formiche.net, “rafforzeremmo il golden power sulle infrastrutture portuali strategiche, come Palermo”.

Dopo gli articoli di Formiche.net e del Quotidiano del Sud, l’Autorità di sistema portuale del mare di Sicilia occidentale, che ha competenza sullo scalo palermitano, ha precisato che si tratta di una notizia di cui “non è al corrente”.

In ogni caso, per ora – almeno per ora – i porti italiani sembrano saldamente nelle mani dello Stato italiano. “Il territorio o gli spazi nei quali si trovano i porti appartengono al demanio marittimo, pertanto sono inalienabili”, dice Sergio Maria Carbone, professore emerito del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Genova e fondatore dello Studio Carbone e D’Angelo nel capoluogo ligure, a Formiche.net. Per questo, continua, “attualmente direi che sì, i porti italiani rimangono al sicuro, in mani pubbliche”.

“Gli spazi”, spiega il professore, “sono nella titolarità esclusiva dello Stato e non possono essere alienati. Inoltre, in questi spazi si può svolgere soltanto attività coerente con le politiche portuali e di sviluppo dei traffici stabilite da parte del nostro Paese. Quindi, le concessioni devono essere utilizzate come strumento di realizzazione di politiche dello Stato condivise con il concessionario che deve operare in coerenza con esse, tanto che le relative modalità e tali scelte possono essere addirittura imposte da parte dell’autorità pubblica, che nel caso di specie sono le autorità portuali”, aggiunge.

“Il fatto che le concessioni siano legate a impegni, e che possano essere revocate se il concessionario è inadempiente, rappresenta una garanzia per il Paese e l’interesse generale”, osserva Pagani. “Se, invece, dovesse cambiare la legge mutando la natura delle Autorità, da regolatrici che danno concessioni a società che danno affitti, allora sì che ci sarebbe di che preoccuparsi perché il controllo pubblico dei porti dipende anche dalla natura del soggetto regolatore”, avverte.

In questo senso, il modello nordeuropeo “non può funzionare” per l’Italia, dice ancora il deputato dem con riferimento alle richieste dell’Unione europea di cambiare la normativa italiana. “L’Italia è piena di porti ‘in città’, dove il presidente dell’Autorità è quasi un sindaco. Per questo, il sistema del Nord Europa, con i giganti nei porti fluviali, da noi non può funzionare”, dichiara.

Con il passaggio da autorità regolatrici a società potrebbe configurarsi “un altro rischio”, continua Pagani: “Che il controllo straniero di un sistema portuale possa diventare una leva geopolitica di ricatto contro l’Italia”.

“Che si parli di Cina o di chicchessia, dobbiamo garantire che le infrastrutture portuali siano un patrimonio del popolo italiano, che non possono essere controllate da uno o più privati, in accordo tra loro”, continua Pagani. “La tutela reale della concorrenza sta nella regolazione del mercato e l’unico modo per farlo è attraverso il sistema delle concessioni, che hanno il pregio di poter essere revocate”.

L’Italia ha “evidenti necessità” di mantenere rapporti economici con la Cina, “come tutti, anche nel settore shipping”, prosegue il deputato. “Per questo, su alcuni temi non possiamo essere ideologici. Ma bisogna fare affari senza diventare subalterni agli interessi strategici dei nostri interlocutori. Dovremmo sempre farci guidare dal principio della reciprocità, evitando di aprirci a Paesi che non lo fanno nei nostri confronti”, conclude Pagani.

Con i porti al sicuro alla luce della legge vigente, la differenza, dunque, la fanno le persone, osserva il professor Carbone. Perché “le autorità portuali non possono che operare all’interno delle linee che vengono definite dal governo e nell’ambito di ciò rientrano anche le funzione e gli obiettivi che i singoli porti si propongono in termini di offerta di servizi e di presenza operativa nei traffici marittimi e commerciali, tenuto conto dei relativi mercati di riferimento”.

E i segnali del governo di Mario Draghi in questo senso appaiono piuttosto chiari. Basti pensare a quel “lo esamineremo con attenzione”, con soggetto il memorandum d’intesa sulla Via della Seta firmato nel marzo del 2019, pronunciato dal presidente del Consiglio a giugno, durante la conferenza stampa al termine del G7. Parole che erano state accolte così da Thomas Smitham, incaricato d’affari presso l’ambasciata degli Stati Uniti d’America a Roma: “È interessante” in un momento in cui “stiamo parlando degli investimenti in Italia”.

I porti italiani? Al sicuro da mire straniere (per ora). Ecco perché 

Un caso come quello greco del Pireo? Non potrebbe realizzarsi da noi, a meno di cambiare le leggi (e l’Ue incombe). Il professor Carbone: “Gli spazi in cui si trovano gli scali appartengono al demanio marittimo, pertanto sono inalienabili”. Pagani (Pd) avverte: “Il sistema nordeuropeo da noi non può funzionare”

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