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L’invasione russa in Ucraina ha appena dato una potente scossa ai mercati dell’energia. Lunedì mattina il prezzo di un barile di petrolio Brent ha sfiorato i 140 dollari, un livello non visto dalla crisi del 2008. In contemporanea i futures del gas europeo hanno toccato il massimo storico di 345 euro per megawattora prima di stabilizzarsi attorno a 250 €/Mwh. Venerdì  il prezzo era 193, ma un anno fa si aggirava attorno ai 16.

Al momento l’export russo di energia è esente dalle sanzioni occidentali, ma l’ipotesi di colpire anche il petrolio (per evitare di rimpinguare il forziere di guerra di Vladimir Putin) ha contribuito a generare nervosismo nei mercati. Domenica il segretario di Stato americano Antony Blinken ha dichiarato che stava discutendo “attivamente” un divieto sul petrolio russo con gli alleati. Anche l’Eliseo ha confermato l’esistenza di queste discussioni.

Le borse asiatiche ed europee hanno reagito drasticamente lunedì mattina con un tonfo. A risentirne di più è l’Europa, dipendente dai combustibili fossili russi e più esposta ai capricci geopolitici di Putin – nonché alle conseguenze delle sanzioni occidentali. Come ha sottolineato Matteo Villa, capo del DataLab di Ispi, il prezzo del gas naturale negli Usa (che sono autosufficienti sotto quel profilo) si aggira attorno ai 15 €/Mwh. Però la fiammata del prezzo del petrolio si sta facendo sentire anche alle pompe di benzina statunitensi dove il gallone ha toccato i 4 dollari per la seconda volta nella storia.

Si addensano nubi anche sulla ripresa economica. Angelo Ciavarella, CEO di Blink Concept e professore all’Università di Greenwich, ha ricordato a Formiche.net che quattro delle ultime cinque recessioni sono state causate dall’aumento spropositato dei prezzi del petrolio. “Se il prezzo si stabilizzasse sopra i 120 dollari a barile si genererebbe un ulteriore rialzo dell’inflazione, che è già ai livelli più alti degli ultimi 40 anni (7,5% negli States e 5,8% in Ue). Così si rischia di perdere almeno l’1% della crescita del Pil globale, il che significherebbe possibile stagflazione l’anno prossimo, ossia crescita intorno all’1% e inflazione sopra il 3%. Si prospettano momenti bui…”.

La folle fluttuazione di inizio settimana sta avvenendo nonostante le contromisure del sistema occidentale per stabilizzare il mercato. La settimana scorsa l’Agenzia internazionale dell’energia ha deciso di rilasciare 60 milioni di barili di petrolio dalle riserve strategiche dei Paesi aderenti, una mossa dettata dalla gravità della situazione. Quando hanno annunciato la decisione, i ministri dell’energia occidentali hanno rimarcato che l’invasione della Russia ha aggravato un contesto già tesissimo: mercati petroliferi globali al limite, maggiore volatilità dei prezzi, scorte commerciali al livello più basso dal 2014 e limitata capacità dei produttori di inviare ulteriori forniture a stretto giro.

Ironicamente, il movimento nei mercati sta giocando a vantaggio di Putin: se i prezzi del gas rimanessero attorno ai 250 €/Mwh per un mese, ha scritto Villa, le entrate di Gazprom ammonterebbero a quasi un miliardo di euro al giorno. Intanto, sempre più governi – tra cui quello italiano – si stanno rassegnando alla necessità di riaccendere le centrali a carbone per compensare un eventuale calo nelle forniture energetiche russe, che sia causato dal Cremlino o dalle sanzioni.

Nel frattempo si è scatenata la caccia al petrolio alternativo a quello russo, dal momento che sempre più aziende occidentali (e non) scelgono volontariamente di non acquistarlo nonostante i forti sconti. Washington sta approfittando della distrazione russa per contattare Caracas, che è succube di Mosca, e far tornare il petrolio venezuelano sui mercati internazionali. E le Nazioni Unite hanno chiesto di rimuovere il blocco alla produzione del petrolio libico; a pieno regime, il Paese poteva produrre 1,2 milioni di barili al giorno.

Parallelamente, mentre si impegnano a trovare soluzioni a breve termine per garantire la sicurezza energetica nel breve termine, l’Ue e i suoi membri sembrano determinati a rafforzare la spinta verso le rinnovabili come soluzione finale per la dipendenza dagli idrocarburi russi. L’Aie crede che si possa ridurre l’import europeo di gas russo di un terzo nel giro di un anno, tramite l’utilizzo di fonti alternative (su questo l’Italia si sta muovendo in primo piano) e l’accelerazione dei processi di efficientamento e conversione della produzione energetica verso le rinnovabili. Non è certo un piano indolore, ma si tratta di bilanciare la dipendenza europea dai tubi russi e la volontà di staccarsi – in nome dell’Ucraina.

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