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Oggi si vota per i ballottaggi a sindaco e sono curioso di vedere quale sarà l’affluenza alle urne, perché la disaffezione elettorale è uno dei grandi problemi della nostra (post) democrazia.

Al primo turno a Roma ha votato il 48,83% e a Torino il 48,08%, in ampio calo rispetto alle elezioni precedenti. A Milano Sala ha vinto come una affluenza del 47% degli aventi diritto: in pratica è il sindaco di meno della metà degli elettori. Come mai? La democrazia rappresentativa sta sempre più di perdendo la partecipazione dei cittadini. Per comprendere meglio le ragioni di questa “crisi” va considerato un dato sulla rappresentatività del Parlamento.

Nel 1861 l’Italia aveva un voto limitato. Su 22.176.477 di abitanti erano iscritti alle liste elettorali in 418.695 e i votanti alle prime elezioni italiane furono 239.583: praticamente il 2% di aventi diritto e 1% di votanti.

Il suffragio universale maschile è del 1912, quello femminile del 1946 e alle prime elezioni politiche del 1948 votò il 92,19% degli aventi diritto. Nel 2018 su 60 milioni di abitanti e un corpo elettorale di 46 604 925 ha votato il 72,93% con un dato in ampio calo, ancora più evidente in Regioni e comuni. Dati molto interessanti e preoccupanti.

Il modello della forma di governo è – in buona sostanza – analogo, allora come ora. Ma il divario nei numeri è così eclatante che non hanno bisogno di commento. Anzi, ad aggravare la “diluizione” della rappresentanza va considerato quanto oggi sia diversa la nostra società da quella ottocentesca, con lo sviluppo dei mezzi di trasporto, di comunicazione, di informazione, della cultura, e la scomparsa dei partiti tradizionali. Nella nostra post-democrazia digitale ci sentiamo sempre più lontani dalla macchina dello Stato e, quindi, non andiamo nemmeno a votare.

Ecco, allora, la domanda ineludibile: possiamo pensare di far partecipare i cittadini alla forma di Stato ancora con i meccanismi dello Stato ottocentesco?

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