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L’amministrazione Biden ha reso pubblica una nuova strategia indo-pacifica che dettaglia i piani per aprire nuove ambasciate nel sud-est asiatico (per esempio, a breve nelle Isole Solomon, dove da poco ci sono state proteste contro l’ingerenza cinese), aumentare le missioni della Guardia Costiera per addestrare le forze locali nella regione e rafforzare le alleanze con India, Giappone e Corea del Sud.

Al di là dei contenuti in sé, dal punto di vista comunicativo la press release della strategia per l’Indo Pacifico porta con sé un messaggio di potenza: gli Stati Uniti sono una realtà talmente forte, globale, futuristica, che mentre si trovano ad avere a che fare con una potenziale invasione russa dell’Ucraina — e dunque a quella che potrebbe essere una minaccia alla stabilità europea — fanno uscire la strategia con cui muoversi nella principale regione del mondo, l’aerea che individuano come primo livello del contenimento cinese.

La strategia di Joe Biden per l’Indo Pacifico è la terza del genere, dopo quella di Barack Obama e Donald Trump, e ha una caratteristica importante: segue nel significato quella dei precedenti. Segno di una continuità nella visione strategica che emerge anche tra le diversità politiche, evidenti nel differente linguaggio rispetto alla dottrina trumpiana (o di chi si occupava di queste vicende per il repubblicano, più bravo come capo popolo che come stratega) e molto sovrapponibile anche nei termini a quella del predecessore democratico.

Con Obama, Biden ha in comune anche un altro elemento: come la strategia sull’Indo Pacifico doveva essere una parte consistente del “Pivot to Asia”, che è stato sostanzialmente bloccato dal caos mediorientale (le Primavere arabe, l’esplosione del Califfato) e dalla vicenda in Crimea, così per Biden il rischio si chiama Russia. Le dinamiche nell’Est europeo potrebbero togliere concentrazione e risorse allo sforzo degli Stati Uniti di muoversi verso il Pacifico — anche per questo, per evitare altri intralci, Washington sta predicando equilibrio in tutta la fascia del Mediterraneo allargato, dal Medio Oriente all’Africa centro-settentrionale.

Era il pivot che non è mai avvenuto, ora Biden per portarlo a compimento si dovrà focalizzare sulle realtà geopolitiche indo-pacifiche e dovrà scegliere su una diversa prioritizzazione degli alleati e investire in parzialmente nuove dinamiche geo-economiche. La strategia dà priorità alle alleanze regionali (anche perché per gli Usa sono necessarie, visto che l’America non ha affacci diretti nella fascia nevralgica dell’Indo Pacifico, quella centrale tra India e Australia) e parla delle minacce affrontate dalla regione, tra cui l’ascesa della Cina, il cambiamento climatico, la pandemia Covid-19 e il programma nucleare della Corea del Nord.

“In un panorama strategico che cambia rapidamente, riconosciamo che gli interessi americani possono essere avanzati solo se ancoriamo saldamente gli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico e rafforziamo la regione stessa, insieme ai nostri alleati e partner più vicini”, dice la strategia. Questa intensificazione dell’attenzione americana è dovuta in parte al fatto che l’Indo-Pacifico affronta sfide crescenti, in particolare lo sviluppo di un attore regionale con capacità globale come la Repubblica Popolare Cinese. Pechino punta a diventare la prima potenza mondiale, quella di riferimento, e nel farlo sfrutta il mix di opportunità economica, deterrenza militare, influenza culturale e politica tipico delle grandi potenze. Nel mettere in operatività questi piani inizia dall’Indo Pacifico, dove continuità geografiche, e geopolitiche e culturali possono fluidificare il lavoro.

Chi ha raccontato ai giornalisti il background della strategia Biden per l’Indo Pacifico ha spiegato che non è pensata “contro” la Cina, ma il frutto di visioni statunitensi di lungo termine che individuano la Cina tra le sfide della regione. Tuttavia è evidente che gli obiettivi di Washington vadano in contrasto con quelli (di fondo simili) di Pechino. Basta pensare che nel documento si accenna a un nuovo Indo-Pacific Economic Framework che dovrebbe essere pronto nel giro di pochi mesi per incoraggiare il commercio, migliorare la catena di approvvigionamento e in generale aumentare la connettività nella regione. Lo stesso obiettivo con cui la Cina ha pensato il Rcep, il grande accordo di libero scambio nel Sud-est asiatico a cui partecipano anche Giappone e Corea del Sud — e che taglia fuori gli Usa, come spiegava su queste colonne Alessia Amighini (Ispi).

Tokyo e Seul sono elementi importanti nel documento: in linea con la lettura della realtà di Biden, concentrata su diplomazia e partnership (cuore della visione del mondo delle democrazie, modelli che difende contro gli autoritarismi come Cina e Russia), la strategia menziona la necessità di rafforzare il Quad (la cooperazione tra Usa, Giappone, Australia e India), così come aumentare la cooperazione con la Corea del Sud e il Giappone (dove Biden andrà in visita a maggio) aumentare la collaborazione con l’India ed espandere l’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico (Asean). Sono grandi obiettivi che spesso per ora si sono incrociati non troppo con la realtà.

Per esempio, l’andamento del Quad stesso, che ha perso una parte dell’impeto politico-diplomatico (e militare) di qualche mese fa. Dalla visita del segretario di Stato statunitense tra Australia, Fiji e Hawaii emerge soprattutto la volontà di allargare le attività del quadrilatero, non tanto con nuovi ingressi — sebbene si parli da tempo dell’importanza di aprire la porta a Seul — ma spingendo le partnership di questo con altre organizzazioni esistenti, a cominciare dall’Asean. Che a sua volta è più interessato a opportunità di collaborazione piuttosto che a entrare a far parte di una contrapposizione con la Cina che, per strutturazione generale, sarebbe per tutti quei Paesi un problema.

(In foto: Joe Biden con il presidente indonesiano Joko Widodo – Flickr White House)

Cosa dice la strategia di Biden per l'Indo-Pacifico (e per la Cina)

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