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La Libia si avvicina alle elezioni — fissate dall’Onu per il 24 dicembre — tra tensioni e inquietudini politiche, abbinate alla speranza della cittadinanza di trovare una stabilità che possa proiettare il Paese verso un futuro che manca da almeno un decennio.

Nell’ultima delle vicende di questi giorni, il primo ministro del Governo di unità nazionale (Gnu), Abdulhamid Dabaiba, ha indirizzato una lettera al presidente dell’Alta commissione elettorale minacciando di impugnare la legge elettorale presidenziale. Nella missiva, di cui Agenzia Nova ha avuto informazioni da fonti governative, Dabaiba spiega di aver ricevuto un memorandum firmato da 57 deputati per chiedere modifiche all’articolo 12 del testo legislativo adottato lo scorso settembre dal presidente del Parlamento, Aguila Saleh.

Il punto è questo: l’articolo richiede la sospensione da ogni carica pubblica per 3 mesi prima della data delle elezioni presidenziali. Come indicato da fonti libiche a Formiche.net nei giorni scorsi, c’erano state pressioni per cambiarlo, in modo da poter includere lo stesso Dabaiba. Questo ha prodotto reazioni all’interno del complicato panorama politico libico, perché — fin dall’elezione del premier attraverso il Foro di dialogo libico dell’Onu — si sapeva che l’accettazione degli incarichi istituzionali attuali avrebbe impedito la partecipazione alle elezioni.

Dabaiba ha minacciato adesso di fare ricorso perché l’impossibilità di prendere parte alle elezioni viene considerata da lui discriminatoria, in violazione del principio delle pari opportunità. Così facendo il primo ministro ha confermato in parte le valutazioni di chi prevedeva una sua volontà di restare al potere per più tempo rispetto al semplice incarico ad interim ricevuto in sede onusiana.

Lo scontro su chi potrà partecipare al voto e sulle regole connesse è parte del dibattito politico che sta accompagnando questa campagna elettorale — in cui molti degli attori politici più importanti sono in posizione attendista, aspettando il tempismo perfetto per lanciare la propria candidatura, ma non rinunciano a muovere pedine e interessi. Dinamiche su cui si sovrappongono gli obiettivi dei player internazionali, esterni alla Libia ma parte delle divisioni interne dalle retrovie dei gruppi di potere.

Parte dello scontro si ripercuote sulle istituzioni, con il governo in rotta con il Consiglio presidenziale (organo onusiano che sostituisce la presidenza effettiva). I due centri istituzionali sono entrambi provvisori, nominati lo scorso febbraio dal Foro, e anche per questo subiscono le dinamiche pre-elettorali. L’oggetto della discussione in questo momento è la sospensione della ministra degli Affari esteri del Gnu, Najla el Mangoush, che da sabato è stata oggetto di una procedura di sospensione dall’incarico “in via cautelativa” per indagare sulle presunte “violazioni amministrative a lei attribuite”.

La decisone è stata presa sabato 6 novembre dal Consiglio di presidenza (che si ricorda è composto da tre membri, rappresentativi delle tre macro-regioni che compongono il Paese, il presidente Mohamed Menfi per la Cirenaica, i vice Abdullah al Lafi e Moussa Kuni per Tripolitania e Fezzan). Nella motivazione, il Consiglio ha accusato Mangoush — avvocatessa di Bengasi — di aver “rappresentato la politica estera senza coordinamento”. Ora non potrà lasciare il Paese fino alla conclusione delle indagini: l’esecutivo ha chiesto il reintegro, negli interessi del governo, ma l’organo presidenziale per ora non ha accettato.

In precedenza, la ministra era già stata molto criticata perché avrebbe scavalcato il Consiglio presidenziale nominando funzionari nelle sedi diplomatiche estere. Non solo: Magoush è finita sotto attacco politico per aver chiesto che tutte le forze straniere lasciassero il Paese, includendovi le unità turche, che sono in Libia per un accordo di cooperazione con il precedente governo onusiano. Per Ankara quelle sono presenti (in Tripolitania) in forma regolare, a differenza degli schieramenti russi e di altri Paesi in Cirenaica.

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