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Le imprese americane hanno un margine medio di circa cinque giorni negli inventari dei semiconduttori, un livello che le espone ad un rischio preoccupante per la continuità della produzione rispetto agli anni precedenti. È questa la principale conclusione a cui sono arrivate le consultazioni lanciate a settembre 2021 dal Dipartimento del Commercio sulla resilienza di questa ormai filiera strategica.

Il chip crunch iniziato nel 2020, a seguito delle chiusure forzate delle attività produttive in tempo di pandemia e del forte rimbalzo della domanda di prodotti high-tech e nell’elettronica di consumo, ha lanciato una nuova riflessione globale sulla tenuta, e struttura, delle catene del valore al punto da mettere in discussione paradigmi di business consolidati, come il just in time. Di fronte alla tempesta perfetta causata da eventi, shock improvvisi e ad una forte spinta verso la digitalizzazione (17% in più della domanda rispetto al 2019), la questione dell’approvvigionamento di materie prime, semilavorati ed energia è diventata una chiara questione di sicurezza.

Ed è da inserire in questo contesto la Request for Information (RFI), come iniziativa seguita al denso rapporto sulle supply chain critiche diffuso la scorsa estate dalla Casa Bianca, che ha raccolto spunti e informazioni utili ad affrontare la crisi che ha messo, e sta mettendo, sotto pressione la complessa filiera dei semiconduttori.

È da ricordare che nello stesso mese, inoltre, Joe Biden aveva fatto ricorso al Defence Production Act per forzare i produttori di chip, e non solo, a condividere dati e informazioni sensibili su scorte e produzione con il governo americano. Una mossa che dà l’idea della criticità della situazione, se consideriamo che la misura è stata poche volte utilizzata sin dalla sua entrata in vigore nel 1950, durante la guerra di Corea.

In risposta, il Dipartimento ha ricevuto più di 150 notifiche da un folto gruppo di stakeholders, dalle industrie di chip americane fino alle aziende ICT, passando per i colossi dell’automotive.

I risultati delle consultazioni, condotte dal Dipartimento del Commercio con gli stakeholders che hanno condiviso preziose informazioni con il governo, parlano chiaro. “L’America necessita di produrre più semiconduttori. Il Congresso deve autorizzare i fondi per la produzione domestica, come il US Innovation and Competition Act per risolvere i nostri problemi di fornitura nel lungo termine”.

Il pacchetto USICA è l’ombrello legislativo che si pone l’obiettivo di lanciare una nuova corsa tecnologica, attraverso un massiccio impiego di fondi federali per stimolare il reshoring di attività produttive strategiche, supportare R&D e rilanciare la frontiera dell’innovazione statunitense. All’interno del piano, sono previsti circa 52 miliardi di dollari (CHIPS Act) per aumentare la produzione americana di semiconduttori, a partire da una maggiore fab capacity relativamente ai competitori internazionali. Il CHIPS Act, tuttavia, è stranamente bloccato al Congresso, con democratici e repubblicani che lavorano, in uno sforzo bipartisan, per limarne le criticità. Approvare la legge allieverebbe “una carenza senza precedenti di semiconduttori”, hanno commentato i senatori Rob Portman e Sherrod Brown in un comunicato stampa congiunto lo scorso 7 gennaio, “esacerbata da governi stranieri che seducono [i player] del settore all’estero e inducendo una sovraesposizione degli USA alla produzione oltreoceano”.

Tuttavia, secondo il testo della proposta di legge, la misura consentirebbe al governo di sussidiare qualunque “macchinario o equipaggiamento che sia disegnato e utilizzato per produrre semiconduttori”. Una definizione ampia, che potrebbe includere anche impianti di packaging e test (OSAT). Ma, fino ad ora, i grandi investimenti annunciati da Intel, Samsung e TSMC negli USA qualora il CHIPS Act venisse approvato riguardano specialmente le “fonderie”. Secondo il Professore della Harvard Business School, Willy Shih, se le preoccupazioni geopolitiche sono tra i rischi prioritari da affrontare, il governo dovrebbe preoccuparsi anche “di tutti i materiali che finiscono nelle fonderie”, in un commento su Quartz.

“La questione numero uno individuata nel Risk è l’insufficiente fab capacity, proprio quella che la proposta del Presidente è chiamata ad accelerare” si legge nella nota a margine.

Secondo il rapporto, la maggioranza dei siti produttivi sta operando al 90% della capacità, il che significa che per alleviare la carenza nel lungo termine, dati i margini operativi ormai saturi, servirà necessariamente aumentare le fonderie. Inoltre, altri colli di bottiglia sono stati individuati in specifici punti della filiera: dagli input materiali, passando dall’equipaggiamento fino ad una ampia gamma di prodotti specifici, come i chip logici (utilizzati nelle automobili, nei dispositivi medici e in altri prodotti), i chip analogici (usati nei sensori, radio frequenze e gestione dei sistemi energetici) e infine i chip optoelettronici. La maggior parte dei rispondenti ha tuttavia rimarcato come pressante la necessità di aggiungere ulteriore fab capacity, insieme ai materiali e processi per un completo reshoring della filiera più a valle.

La scorsa settimana, Intel ha annunciato di investire 20 miliardi per costruire quello che potrebbe diventare l’hub produttivo di semiconduttori più esteso del mondo, in Ohio. A novembre 2021, Samsung ha annunciato di aver individuato la cittadina di Taylor, in Texas, per ospitare la nuova foundry con un investimento di 17 miliardi, operativa entro il 2024.

In attesa di avere un quadro più chiaro sulla possibile durata della crisi dei semiconduttori, lo sforzo di collaborazione tra imprese e governo federale, con una maggiore trasparenza delle prime, rappresenta un chiaro salto di paradigma verso una gestione dei processi produttivi più trasversale. Molto interessante notare che tra la maggior parte delle risposte alla RFI sono giunte da fornitori delle industrie dei chip e diretti consumatori (end user), soprattutto dal settore automotive (42%), uno dei più colpiti dalla crisi. Sono 8 milioni le unità in meno prodotte nel 2021, con una perdita complessiva di 210 miliardi.

Si tratta di un altro importante segnale, ed evidenza analitica, sulla complessità della crisi dei chip che dovrà essere affrontata non solo attraverso stimoli e incentivi fiscali, ma da un generale ripensamento della cooperazione tra pubblico e privato, come dimostra anche l’iniziativa dell’istituzione di un Earl Alert System per monitorare le improvvise chiusure delle attività manifatturiere nell’elettronica.

Vi è inoltre da monitorare l’impatto potenziale, lungo la filiera, di un eventuale blocco delle esportazioni di tecnologia di semiconduttori, attraverso la Foreign Product Direct Rule già utilizzata contro Huawei, come misura di ritorsione verso le mobilitazioni militari della Russia in Ucraina.

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