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In altri tempi, in tempi normali, quelli diciamo in cui la politica seguiva una logica (anche se la sua razionalità è stata sempre di un tipo particolare), l’avventura di Giuseppe Conte come capo politico in pectore del Movimento Cinque Stelle si sarebbe conclusa ieri.

Precisamente, con la discesa a Roma del “padre padrone” del Movimento, che non solo ha rivendicato il suo ruolo davanti a deputati e senatori, ma ha in pratica delegittimato pubblicamente l’ex presidente del Consiglio a cui pure egli stesso aveva affidato solo qualche mese fa a guida della sua creatura. La guida, appunto, ma da esercitarsi con la piena potestà del capo stesso di intervenire in ogni momento e correggerne con una sola parola la direzione, il tragitto, il funzionamento stesso.

E persino l’organizzazione, quindi anche la comunicazione affidata da Conte al fedele Rocco Casalino, come Grillo ha tenuto a sottolineare. Che Conte ciò, in questi mesi in cui ha provato a ridisegnare il Movimento (un po’ facendolo partito e un po’ a sua immagine e somiglianza), non lo abbia capito, o che abbia semplicemente fatto finta di non capirlo per provare ad allargarsi, a questo punto è del tutto irrilevante.

Il dato politico c’è tutto e, ripeto, un tempo, quando da parte degli attori politici c’era più serietà e si dava anche più peso alle parole, le conseguenze sarebbero state immediate e irrevocabili: le dimissioni dell’incaricato. Se oggi, a ventiquattro ore dai discorsi incriminati, e dopo una giornata convulsa, Conte sta ancora a parlare di un’ultima riflessione da fare e delegazioni del Movimento fanno la fila per andare a parlargli nella sua casa romana, non è difficile immaginare che la reazione stizzita e la minaccia di dimissioni fatte trapelare dopo svariate ore, siano solo un modo per alzare il prezzo nella trattativa col comico-fondatore. Il quale, avendolo capito, furioso, ha preso la macchina e ha lasciato Roma. Avvocati e intermediari (più o meno interessati) dovrebbero perciò trovare una soluzione alla crisi, ad avviso di chi scrive. E che, non potendo Conte rompere i ponti col Movimento, assumerà le sembianze di una resa incondizionata. La figura del nuovo capo politico, e quel che più conta anche la sua autonoma agibilità, ne uscirà fortemente ridimensionata.

Conte si troverà, fra l’altro, nel Movimento, non solo sotto il controllo costante del Garante, niente affatto propenso a ritirarsi in una delle sue ville e a fare il “padre nobile”, ma anche affianco a un gruppo di dirigenti che fra la fedeltà a lui e quella a Luigi di Maio, se costretti a scegliere, non avranno mai dubbi. Il quale Di Maio, che formalmente dà oggi tutto l’appoggio possibile a Conte ed è impegnato su altri e istituzionali fronti, ha ieri incassato persino l’endorsement del capo (quello vero), che o ha definito (ma si sa che la storia non è il suo forte) “il migliore ministro degli esteri che l’Italia abbia mai avuto”.

Perché Conte, ad avviso di chi scrive, alla fine accetterà le condizioni imposte da Grillo, non è difficile capirlo. La politica si fa infatti tenendo presente le alternative che si hanno in mano, e l’ex premier in pratica di valide oggi non ne ha. Tentare l’avventura con un “partito personale” era una carta che forse poteva essere giocata qualche mese fa, quando si è rivelata impraticabile per l’ovvio motivo che senza ingenti risorse economiche oggi non si può compiere un passo del genere. Allo stato attuale, e anche fosse possibile, essa non avrebbe senso perché la lontananza dal potere logora inesorabilmente anche i leader più amati (almeno stando ai sondaggi di qualche mese fa).

Anche nel Pd, Conte non ha più sponde: il gruppo di potere che faceva capo a Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini è oggi irrilevante, e non può garantire nulla nemmeno per sé stesso, figurarsi sui futuri equilibri. Certo, con il tramite di Alfonso Bonafede, che gli è rimasto fortemente fedele, Conte potrebbe trovare casa in un molto teorico “partito giustizialista”, quello dei Travaglio e dei Davigo per intenderci. Ma, anche in questo caso, oggi ci troviamo davanti ad una opzione senza più l’appeal di un tempo.

Come è noto, fra vicende del Csm (il cosiddetto “sistema Palamara”) e riforme annunciate della giustizia, il crollo della fiducia popolare verso magistrati e loro fan è stato verticale. Ci sarebbe da scoraggiarsi. In verità, già un’atra volta, solo tre anni fa, è successo che Conte abbia assunto un ruolo pubblico di rilievo partendo da una posizione di debolezza assoluta (ci fu addirittura chi lo definì una semplice “marionetta” in mano ai due vice quando era a Palazzo Chigi). Con scaltrezza, ne approfittò e da secondo che era si fece primo. Che il “miracolo” possa ora compiersi anche in ambito più strettamente politico è tutto da dimostrare. Ma, in questo caso, come e più di allora, la scommessa Conte se la giocherà per necessità. A noi non resta che lo scetticismo, per il futuro suo ma anche dei grillini.

I suoi e i loro tempi, e dopo tutto anche quelli del vecchio Movimento a cui restano aggrappati i Casaleggio (Davide) e i Di Battista, sono vicini ma sembrano archeologia storica. Il 2050 che compare nel nuovo simbolo mostrato ieri da Grillo, più che una speranza sembra un’illusione. Magari arrivarci! E con ogni probabilità le vicende di queste ore assumeranno, agli occhi degli storici, in un futuro non troppo lontano, le sembianze di una guerra fratricida per spartirsi i resti di un cadavere.

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Tentare l’avventura con un “partito personale” era una carta che forse poteva essere giocata qualche mese fa, quando si è rivelata impraticabile per l’ovvio motivo che senza ingenti risorse economiche oggi non si può compiere un passo del genere. Allo stato attuale, e anche fosse possibile, essa non avrebbe senso perché la lontananza dal potere logora inesorabilmente anche i leader più amati. La rubrica di Corrado Ocone

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