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Il 27 marzo 1994 gli italiani che si recano alle urne per il rinnovo del Parlamento repubblicano non trovano più sulla scheda elettorale, per la prima volta dal ’48, il simbolo della Democrazia cristiana, e nemmeno quello degli altri soggetti di Pentapartito, alcuni dei quali andati incontro a operazioni di restyling funzionali a garantire un’esistenza solo nominale. Nuove aggregazioni, nuovi partiti, nuovi leader affollano adesso il panorama politico.

La «svolta» assume tratti così marcati da aprire la strada all’impiego della formula «seconda Repubblica», che si diffonde e si radica dapprima in ambito giornalistico, poi, piuttosto velocemente, nella produzione pubblicistica e storiografica.

Ѐ certo che il 1994 rappresenta uno spartiacque, ma tra due tempi di una medesima Repubblica che mantiene intatti fino ad oggi l’impianto scenico e le sue peculiarità, ovvero la forma di governo dello Stato e i rapporti fra corpo elettorale, Parlamento e potere esecutivo. Se dunque un mutamento c’è stato, esso ha riguardato la struttura e le caratteristiche degli attori politici, i meccanismi del loro interagire, le dinamiche della proiezione esterna, non già l’organizzazione del sistema istituzionale entro cui agiscono. Non si è dato fiato, invece, al necessario «passaggio costituente» che avrebbe offerto piena legittimazione al nuovo corso politico.

Sono certamente in pochi all’inizio a ritenere che l’approdo elettorale di «Tangentopoli» e della «crisi» del sistema partitico possa essere a destra, non a sinistra. Ma sfuggono, con ogni evidenza, i termini del dilemma identitario che pervade Botteghe Oscure dopo il 1989 e la propensione dei «moderati», orfani del Pentapartito, a inseguire un «mutamento senza avventure» e a non fare sconti all’anticomunismo, che nel post Guerra fredda trova linfa nell’articolazione del messaggio berlusconiano.

La «seconda Repubblica» eredita dalla stagione che l’ha preceduta una serie di questioni complesse. In primo luogo, il mancato ammodernamento del profilo istituzionale dello Stato, che incide sulla traiettoria del «non governo».

Rappresenta un lascito del passato anche il tema dei rapporti, e dello scontro, fra il potere politico e quello giudiziario (se non «tutto» il potere giudiziario, certamente una sua parte). Lungi dall’attenuarsi, il conflitto vive momenti di particolare asprezza negli anni della «Repubblica bipolare», ed è un crescendo di accuse reciproche: da un lato viene stigmatizzata l’«ideologia della supplenza», che spingerebbe le toghe a invadere la sfera della politica per ovviare alle sue inefficienze; dall’altro, si alzano barricate contro i progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario, evocando il rischio di violazione dei princìpi costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura.

 

I mezzi di comunicazione assumono una centralità tale da divenire i canali prevalenti della socializzazione politica, sostituendosi ai partiti. Sia chiaro: non viene meno il potere dei partiti, ma se ne ridefinisce il ruolo, di strutture al servizio di un leader, testimonial e risorsa principale da spendere sul mercato elettorale.

Si pone allora l’interrogativo: una struttura democratica può reggersi solo con la luce riflessa di una leadership? E guardando alla realtà con le lenti dell’oggi, fino a che punto la Rete può assolvere alle funzioni della rappresentanza e sostituirsi all’organizzazione di partito nella selezione della classe politica?

Certo, il richiamo alla «società civile» come «serbatoio di incontaminate energie a cui attingere per questa o quella candidatura di facciata» è proseguito in questi anni a ritmo incessante, ma fra i criteri di selezione e cooptazione talvolta ha faticato ad imporsi l’elemento «qualitativo», con una conseguente, inevitabile delegittimazione dell’istituto parlamentare agli occhi dell’opinione pubblica. Quanto poi la corsa a «de-professionalizzare» la politica abbia contribuito a una sua effettiva rigenerazione, è tutto da vedere. Il nostro convincimento, piuttosto, è che il processo di «dequalificazione» della rappresentanza parlamentare abbia inciso negativamente sull’efficacia dell’azione legislativa e di governo.

Il manifesto delle intenzioni della «seconda Repubblica» si proponeva di andare oltre le colonne d’Ercole della democrazia consociativa, per traghettare il Paese nel mare aperto della competizione maggioritaria. In mancanza di una condivisione di valori e regole di fondo, però, quello imposto per legge è un bipolarismo che rivela la sua natura «disfunzionale» nel perimetro nuovo dell’alternanza e dei «governi eletti dal popolo»: in luogo di un processo di semplificazione del quadro partitico, ecco materializzarsi una persistente, elevata frammentazione, e coalizioni ad alto tasso di disomogeneità interna, buone a garantire il successo elettorale, assai meno efficaci alla prova del governo.

In un volume pubblicato nel 1996, Giulio Andreotti invitava alla prudenza, e anziché riferirsi alla «seconda Repubblica» preferiva meditare sulle caratteristiche di una «transizione interna di cui è certa la sponda di partenza, ma tuttora nelle nebbie quella di arrivo». Trascorso un quarto di secolo, potremmo ben dire di essere sempre in attesa del punto di approdo.

A questo punto, storia e cronaca si sovrappongono, e gli eventi della XVIII legislatura sembrano confermare la regola non scritta per cui sul «presente» debba continuare a esercitare un peso condizionante il «passato». Letta in questi termini, un filo sottile unisce forse l’esperienza governativa di Mario Draghi a quella di Carlo Azeglio Ciampi, con il quale proprio l’attuale presidente del Consiglio ebbe un forte sodalizio umano e professionale: come nel 1993, anche oggi un «tecnico» è giunto in soccorso del Paese per operare scelte che una classe politica a corto di fiato – e con l’occhio rivolto alle prossime scadenze elettorali – non avrebbe certamente voluto prendere in considerazione.

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