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L’Ucraina ha spesso amato definirsi come un ponte tra due culture, tra Occidente ed Oriente. Metafora irenica, che suggerisce buon vicinato, rapporti stretti, commercio florido. Non a caso, il ponte è una delle simbologie scelte per l’euro.

Eppure un ponte risente più di tutti se i rapporti tra le due rive non sono buoni, o peggio ostili: che è appunto il caso di questo momento tra Usa e Russia. Un ponte può essere attraversato, bruciato, ma raramente lasciato in pace. Esso non vive per sé stesso ma in funzione di altri, mai protagonista del proprio destino.

Avvertivamo, qualche mese fa, che “con Biden l’Ucraina torna al centro”, ma questa non è necessariamente una buona notizia per Kiev, che si trova sulla linea della più importante faglia geopolitica europea, vaso di coccio tra i vasi di ferro, obbligata a schierarsi, a scegliere con nettezza, quando tutta la sua storia ed il suo istinto le consiglierebbero di tenere il piede in due staffe, continuare a lucrare dall’intermediazione consentita dalla sua posizione geografica.

Le scelte di campo non possono che ridurla in pezzi, e infatti Samuel Huntington, nel suo fondamentale “Clash of Civilisations” la definiva proprio un “Paese lacerato”. Anzi, rispetto alle previsioni di quell’autore, l’Ucraina ha manifestato una rimarchevole resilienza, perdendo il controllo della Crimea, e di metà di due province note come Donbas, e però mantenendo gran parte dell’Est russofono.

Il conflitto nel Donbas è stato appunto il segnale che non ci sarebbe stata una seconda Crimea, e che ogni ulteriore secessione avrebbe avuto un costo da pagare. Non vi si combatte per vincere, ma solo per non perdere. E, quantunque lo si definisca un “conflitto congelato”, il cessate il fuoco lì non è mai stato rispettato.

Dunque suscita allarme la dimostrazione di forza della Russia, potenza occupante della Crimea, e sponsor delle due repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, che ha cominciato il mese scorso manovre militari al confine che hanno pochi precedenti per ostentazione di forza: 80000 soldati sono stati ammassati alle frontiere con l’Ucraina, facendo alzare la temperatura in tutte le cancellerie occidentali.

Il significato di questa mossa è profondamente controverso: esiste certamente un rischio significativo di una escalation fino alla guerra aperta, eppure non sembra essere questo il caso. Dopotutto, un’azione così provocatoria difficilmente può essere il segnale di un attacco, il cui ingrediente principale è sempre la sorpresa. Va poi ricordato che la Russia in Ucraina non ha mai agito apertamente: le operazioni che portarono all’annessione della Crimea furono condotte da unità militari senza distintivi (i ‘piccoli uomini verdi’), ed anche in Donbas la presenza russa non è dichiarata apertamente.

È assai più probabile che, di fronte alle dichiarazioni di appoggio all’Ucraina dell’Amministrazione Biden, Putin abbia deciso di vedere, come in una partita di poker, le carte.

Fino a che punto si può spingere il sostegno occidentale all’Ucraina, che non è un membro della Nato né dell’Unione Europea? La Nato sarebbe disposta a far entrare nei suoi ranghi un Paese che ha una guerra civile in corso, e che per giunta ha dimostrato standard di governance molto bassi, con una corruzione estesa a tutti i livelli? O invece è possibile negoziare, al di là della posizione americana che non ammette il diritto a sfere di influenza, il riconoscimento di un interesse speciale della Russia in Ucraina in cambio di una via d’uscita dal conflitto? O almeno la sua finlandizzazione? L’acquisto di droni dalla Turchia prelude a un riarmo generale ucraino, e magari a un’offensiva? E il Paese è disposto a una riapertura delle ostilità?

Ricordiamolo: il presidente Zelensky, un ex comico, è stato eletto per chiudere il conflitto, non per riaprirlo. Però, finora, ha mancato riforme decisive, quali quella del corrotto sistema giudiziario, ed ha gestito male la risposta al Covid, e come il suo predecessore Poroshenko potrebbe essere tentato dal presentarsi come un presidente di guerra.

Si può dividere l’Ucraina in tre: un’opinione pubblica largamente disincantata e stanca; un’opposizione di destra radicale nazionalista ed antirussa; una leadership che coltiva progetti euro-atlantici largamente onirici e che si legittima con l’emergenza permanente. Nella società civile ucraina non esiste consenso sulla continuazione del conflitto, anche se la destra nazionalista, minoritaria ma sovrarappresentata nel dibattito pubblico, è la più vocale e intransigente nella contrapposizione alla Russia e a tutto quanto è russo, compresa la lingua.

Significativamente, giorni fa la portavoce del Presidente, Iulia Mendel’ ha ricordato in televisione che ‘come esiste una lingua inglese americana, può esistere anche un russo ucraino’. Togliere di mezzo almeno la controversia della lingua (la pretesa cioè che mezzo paese smetta di parlare russo per l’ucraino) significherebbe privare la Russia del pretesto di agire in difesa della minoranza russofona.

Insomma, è improbabile che scoppierà una guerra aperta, se l’Ucraina saprà mantenere il sangue freddo e non cederà a provocazioni (uno scenario simile alla Georgia del 2008).

Nel frattempo, le tensioni giocano a favore del disegno strategico di Biden, che, ormai è chiaro, ha suonato per tutti la fine della ricreazione: con la Russia non sono possibili posizioni intermedie, accordi commerciali sganciati da una intesa politica comprensiva. È tempo per tutti gli alleati occidentali, quantunque riluttanti, di riallinearsi e stringere i ranghi, mentre tra i due leaders, Biden e Putin si prepara un faccia a faccia, al quale nessuno dei due vuole giungere in posizione di debolezza.

La partita di poker è appena iniziata, e la posta non è niente di meno che la sopravvivenza politica di Vladimir Putin.

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