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Se l’obiettivo del G7 tenutosi ieri a Londra su iniziativa del primo ministro britannico Boris Johnson era quello di creare un fronte comune al fine di ottenere un rinvio della scadenza del 31 agosto per completare l’evacuazione dall’Afghanistan – obiettivo peraltro condiviso con il presidente della Francia Emmanuel Macron e con la cancelliera della Repubblica Federale Tedesca Angela Merkel –  la riunione deve considerarsi un fallimento almeno nel breve periodo. È bastato un intervento di sette minuti del presidente degli Stati Uniti Joe Biden perché il principale azionista di quel che resta dell’alleanza atlantica togliesse il tappeto da sotto i piedi di Johnson, Macron e Merkel confermando l’impegno di completare l’evacuazione per il 31 agosto.

Se si guarda, invece, al medio e soprattutto lungo periodo l’incontro telematico del 24 agosto può essere il primo passo per una strategia di successo. Nel medio termine, occorre guardare alla riunione dei Capi di Stato e di governo del G20 in programma a Roma il 30-31 ottobre – un vertice che, a mio avviso, sarebbe meglio non anticipare. È chiaro non solamente che per un assetto pacifico nell’area è necessaria l’interlocuzione con Cina, India e Federazione Russa – tre Paesi che, da un lato, pensano di avere vantaggi dalla sconfitta dell’Occidente in Afghanistan e, dall’altro, temono l’instabilità della regione e il massimalismo dei talebani tanto quanto lo temono i Paesi Ocse. Occorre, però, che i principali Paesi occidentali abbiano una posizione comune su temi quali i rapporti con l’Emirato creato a Kabul, l’apertura o meno di “corridoi umanitari” (di cui si dovrebbe chiarire il significato), la ripartizione dei rifugiati ed eventuali programmi di aiuto. Formulare una posizione in materia e negoziarla con gli altri maggiori Paesi occidentali è compito principalmente dell’Italia che ha la presidenza del G20. Non è un compito facile per la diplomazia italiana. Richiede idee brillanti e tempo per farle accettare.

Nel lungo periodo, il G7 e la comunità dei Paesi occidentali dovrebbe riflettere sul fatto che nei venti anni di presenza in Afghanistan hanno gettato un seme importante ed occorre continuare a concimarlo per farne sbocciare il frutto. Il 22 agosto su Il Messagero, Alessandro Orsini della Luiss ha ricordato lavori di Arnold Toymbee e del mai troppo compianto Luciano Pellicani: una volta createsi una fascia di “erodiani” (ossia di persone che si sono imbevuti dei valori di libertà degli “occupanti”) è impossibile fare marcia indietro.

Vorrei inserire due considerazioni e ricordi personali. Le ragioni per la presenza Nato in Afghanistan sono identiche a quella della presenza Usa in Vietnam in anni che le nuove generazioni hanno coperto da una cortina di oblio ma che non possono non avere plasmato profondamente chi, come me, ha vissuto a Washington dal 1967 al 1982 e ha visto numerosi compagni di università partire per l’Estremo Oriente volontari e non ritornare. Allora non si era alle prese più che con la difesa di un regime (quello dei vari governi che si avvicendavano a Saigon) quanto meno discutibile ma con le libertà essenziali in tutta l’Asia meridionale e forse nel resto del mondo. Erano in corso varie forme di “insurgency” comunista – lo abbiamo dimenticato – in Malesia, in Indonesia, nelle Filippine. Dopo dieci anni di sforzo nel Vietnam quella battaglia fu persa, ma la guerra per la libertà nel resto dell’Asia fu vinta. Phil McCoombs, mio compagno di studi e da giornalista del Washington Post vincitore di numerosi premi (anche perché fu prigioniero dei Viet-Cong e riuscì, in mondo rocambolesco, a scappare) nel saggio scritto a 30 anni della caduta di Saigon, sostiene, acutamente, che la battaglia venne persa solo temporaneamente: se gli “yankee” non avessero resistito per dieci anni, non avrebbe impiantato i semi su cui oggi, pur se in modo confuso e contraddittorio, la libertà sta rinascendo nella penisola.

Tuttavia, parte dei miei 24 anni di vita professionale in Banca Mondiale (18) e agenzie specializzate delle Nazioni Unite (6) sono trascorsi lavorando sull’Asia. Per oltre un lustro uno dei miei migliori amici e colleghi è stato un architetto afghano (Zia Naimei), morto vittima innocente di un gruppo terrorista giapponese nel cielo tra Penang e Kuala Lampur. Era persona colta e raffinata che aveva completato i propri studi a Zurigo e a Monaco, era sposato con un’intellettuale della Baviera, cucinava splendidamente i piatti della sua Nazione e conosceva profondamente la musica del romanticismo tedesco. La sua famiglia risiedeva a Kabul; il padre era stato alto funzionario dell’amministrazione afghana, i suoi fratelli e le sue sorelle erano di religione musulmana ma pensavano e agivano come occidentali. E si era nella seconda metà degli Anni Settanta.

C’è un terreno su cui costruire anche dopo quella che The Economist ha chiamato the Biden débacle. Occorre farlo pensando a risultati di lungo periodo.

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