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Luci e ombre sono emerse dalla Münchner Sicherheitskonferenz. Wolfgang Ischinger, mio collega a Washington nel 2003-2005 che, quale esponente dell’ala più atlantica della diplomazia tedesca, aveva vissuto male l’opposizione del duo Jacques ChiracGerhard Schröder alla guerra in Iraq e ancor peggio il quadriennio di Donald Trump, ha assicurato una volenterosa regia alle retrouvailles della famiglia atlantica sotto il segno del “multilateralismo”, mantra in verità alquanto generico se il metodo non è accompagnato dalla sostanza degli interessi rispettivi e dal comune denominatore della volontà e della visione politica.

Sul terreno degli interessi, i nodi transatlantici sono conosciuti: dal duello Airbus-Boeing alla tassazione delle Gafa, dal Nord Stream 2 all’accordo di Natale con la Cina sugli investimenti fino al burden sharing nella Nato. Ed è sintomatico che a Monaco nessuno abbia auspicato un rilancio del negoziato sul Ttip fallito nel 2015 su agricoltura, servizi finanziari e tecnologici.

Il ritorno degli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi sul clima appare piuttosto cosmetico mentre forse un rilancio dell’accordo nucleare con l’Iran e un certo rigore nei confronti di principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman sullo Yemen, preceduto dalla significativa normalizzazione del rapporto con il Qatar, sembrano in effetti più promettenti per una convergenza transatlantica.

Viceversa, sui due temi “esistenziali”, cioè i rapporti con Russia e Cina, le perduranti distanze e incognite richiederanno un serio lavoro di approfondimento e di verifica da parte di Berlino e Parigi nei confronti di Washington da un lato, Mosca e Pechino dall’altro. Se Berlino prende le distanze dalla nozione di “autonomia strategica” dell’Europa cara al presidente francese Emmanuel Macron (che ne fa, unitamente all’impegno nel labirinto saheliano, anche un messaggio in vista di una non scontata rielezione nel 2022) e preferisce la nozione soft di rafforzamento del “pilastro europeo” della Nato, condivisa dall’Italia, è difficile che i successori di Angela Merkel si allontanino da quella “sindrome della Grande Svizzera” che caratterizza il mercantilismo tedesco anche nella dimensione eurasiatica.

L’esuberanza commerciale e strategica della Cina negli ultimi 25 anni è stata favorita dall’Occidente (frettolosa ammissione all’Organizzazione mondiale del commercio, lassismo in Africa, confusa concentrazione sulle vicende mediorientali con crescita dell’islamismo radicale). Parallelamente, l’euforia per la disintegrazione dell’Unione Sovietica ha fatto dimenticare il preesistente e sottostante “fattore russo”. Le dinamiche neoimperiali si alimentano con le radici nazionali, come è evidente anche nel caso della Turchia.

Anatemi e scomuniche sono la negazione della realpolitik e rischiano di condurre nel vicolo cieco di pericolose escalation. Ci aspettano anni di alta tensione.

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