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Non siamo mai stati abituati a grandi cambiamenti di passo nella politica estera americana. Come tutti i grandi Paesi, almeno quelli che si considerano protagonisti e non comparse della storia, gli Stati Uniti hanno sempre proiettato un’idea di solidità, di stabilità all’estero, che non risente dei cambi al vertice della nazione. Così, democratici o repubblicani si sono da sempre scambiati il ruolo di tutori della primazia della Federazione a livello globale, senza timore di apparire arroganti nel privilegiare l’uso dello strumento militare in sistema col ricorso spregiudicato a sanzioni economiche, capaci di mettere al tappeto le economie più floride dei riottosi.

Per questo, il motto “right or wrong my country”, col quale si celebra il trionfo della ragion di Stato sulle bazzecole di partito e sulle camarille personali, ha da sempre trovato Oltreoceano la sua più alta interpretazione, benché sia certamente proprio delle società più sane, nelle sue varie declinazioni linguistiche. Democratici erano, così, gli interventisti americani verso la Serbia, la Libia o la Siria, come repubblicani quelli contro l’Iraq, l’Iran e l’Afghanistan, per rimanere al nostro spicchio di mondo.

Tutti orgogliosamente a cavallo e a spada sguainata. Con Donald Trump, invece, la musica è cambiata e la politica estera ha marcato sensibili soluzioni di continuità rispetto a quella del suo predecessore, Barack Obama, fino ad arrivare a una marcata inversione di tendenza nel confronto con la Russia, nei rapporti con la Cina e nella postura militare in Nord Africa, in Medio Oriente e in Afghanistan.

Ed è proprio in Afghanistan che Trump ha segnato in maniera più simbolicamente significativa il suo cambio di passo, arrivando a una “pace” con i talebani che sarebbe stata impensabile pochissimi anni prima. Ma ecco che, in discontinuità con quella che sembrava una prassi consolidata, col passaggio dei poteri da Trump a Joe Biden si registrano i segnali di una possibile smentita delle decisioni prese dalla passata amministrazione, con un ritorno alla postura classica degli States.

Un cambio a largo spettro, che vede sotto il profilo politico un aumento di pressione nei confronti della Russia con l’affare Navalny, mentre da un punto di vista militare si segnala il ritorno di forze Usa nei territori siriani a est dell’Eufrate, smentendo il seppur limitato disimpegno abbozzato da Trump, nonché l’annuncio dello schieramento di bombardieri B1 in Norvegia “per difendere gli alleati” dalle mire russe nell’Artico.

Ma è in Afghanistan, certamente, che potrebbe arrivare l’inversione più netta da un punto di vista simbolico, con l’interruzione del ritiro occidentale che era stato annunciato. Un ritiro nel quale la stessa Nato non aveva mai creduto fino in fondo, come confermato dal segretario generale Jens Stoltenberg alla vigilia della riunione in videoconferenza dei ministri della Difesa dell’Alleanza del 17 e 18 febbraio, quando ha lamentato livelli di violenza nel Paese ancora inaccettabili ad opera dei talebani.

Sul punto, nella riunione che era espressamente dedicata alle operazioni in Afghanistan, Iraq e Kosovo, non pare sia stata presa alcuna decisione definitiva, ma sono abbastanza significative le dichiarazioni del ministro Lorenzo Guerini, che ha sottolineato l’importanza di preservare la coesione tra gli alleati nel processo decisionale “a salvaguardia degli importanti risultati conseguiti”.

Massima cautela, insomma, in attesa che a Washington si decida, anche se parrebbe confermato l’impegno in Kosovo e un possibile incremento di presenza in Iraq, in linea quindi col ritorno americano in Siria. Relativamente all’Afghanistan, invece, il desiderio del nuovo Potus di prendere le distanze dalle decisioni del suo predecessore deve fare i conti con una realtà molto complessa, resa potenzialmente esplosiva dal processo di pacificazione ormai in corso (seppur tra mille difficoltà) che non si può (o non si potrebbe) sbrigare con una semplice comunicazione circa la ripresa delle ostilità contro i vecchi miliziani del fu Mullah Omar.

Né potrebbe essere sufficiente il mantra delle “Condition Based Operations” (cavallo di battaglia delle operazioni Nato a cui forse ha fatto riferimento il ministro Guerini citando i “risultati conseguiti da salvaguardare”) col quale si scoprisse dopo vent’anni che l’Afghanistan non si è ancora trasformato in una democrazia occidentale.

Ci sono poi da tenere in considerazione le sensibilità di altri Paesi, come l’Italia e la Germania appunto, da sempre al fianco degli Stati Uniti nel particolare teatro e con profili di missione e di responsabilità di primo piano. In questi ultimi anni, a partire dal 2015 almeno, sono stati infatti molti gli stop and go che hanno costretto a pianificare ritiri mai effettuati e sistematicamente annullati con qualche raffica di contrordini.

Ma certamente, i sacrifici connessi col mantenimento di un contingente nel lontano Paese centro-asiatico devono ora fare i conti con situazioni in Patria diverse da quelle di dieci o quindici anni fa, quando le ragioni alla base dell’operazione Nato erano più facili da far comprendere alle rispettive opinioni pubbliche. E più facili da sostenere da economie non ancora immelanconite dagli effetti della pandemia in atto.

È un fatto, comunque, che Italia e Germania continuano a mantenere i contingenti più significativi dopo quello statunitense, e che il nostro Paese ha da poco tempo impiegato nell’importante ruolo di vice comandante della missione Nato (Resolute Support) uno dei suoi più promettenti generali, Nicola Zanelli, coerentemente al ruolo di primo piano rivestito da sempre nell’area.

A questo punto, si prospettano due soluzioni, in aggiunta a un ritiro completo delle forze che per ora pare improbabile nel breve periodo: il mantenimento dell’impegno attuale nella Regione ovest ,centrata su Herat, per il supporto alle attività operative delle forze dell’Esercito afghano schierate in quella regione, oppure la concentrazione dei nostri sforzi su Kabul, a favore delle attività formative di base nelle scuole militari. La scelta sarà certamente oggetto di una concertazione interalleata e ci vedrà, presumibilmente e auspicabilmente, andare a braccetto con la Germania con la quale condividiamo da molto tempo una sorta di partenariato militare in operazioni, come confermato anche dall’impegno nel nord dell’Iraq.

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