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Un premier sfiduciato dal Parlamento, un fragile governo centrale riconosciuto ma poco sostenuto dall’Onu, guidato dal presidente “Farmajo”, il quale controlla solo una parte del territorio somalo a causa della presenza cancerogena del gruppo radicale islamico Al Shabaab. Poi, come in ogni teatro di guerra – calda, fredda, o sotterranea – attacchi a civili e militari all’ordine del giorno. L’ultimo, l’8 agosto.

Ai jihadisti sanguinari Al Shabaab dev’essere sembrato il momento buono per esasperare lo scontro. Quello con il governo centrale per il controllo del territorio. Di pezzi di Somalia che negli anni sono stati persi, riconquistati e poi di nuovo contesi. Otto persone morte e 14 feriti nell’esplosione di un’autobomba in una base militare a Mogadiscio è solo l’ultimo bilancio numerico di un pallottoliere che di per sé non consegna la complessità di uno scenario.

L’attacco aveva infatti come obiettivo fisico il compound vicino al centro sportivo della capitale (riaperto a giugno e promosso dal governo come simbolo della ricostruzione). Di stanza, i militari dell’esercito nazionale somalo; non proprio una minaccia per Al Shabaab, ma il simbolo di una presenza armata dello Stato centrale, in un Paese dove le armi le imbracciano soprattutto i sanguinari miliziani islamici.

L’autobomba è entrata nella base superando un checkpoint ed è esplosa. Attentato informalmente rivendicato dagli Shabaab, che il governo cerca di sconfiggere da oltre dieci anni. Da quando, cioè, in Somalia hanno generato di fatto un Terzo Stato dell’islam più radicale: che si fa strada a colpi di fucile, machete, rapimenti, stupri e autobombe.

Decrittare la realtà sarebbe presuntuoso, specie a fronte delle mancate rivendicazioni relative a taluni attentati. Ma, stando ai fatti più recenti, la Somalia istituzionale non era così instabile da diversi anni.

Appena quindici giorni fa, il presidente Mohamed Abdullahi “Farmajo” ha nominato il vicepremier Mahdi Mohammed Gulaid come primo ministro ad interim, attirando a sé un’onda di contestazioni da parte dei vertici degli Stati regionali e dalle forze di opposizione che denunciano l’assenza di consultazioni. Al punto che, il giorno dopo la destituzione del premier Hassan Ali Khaire, è stato sospeso su imput del governo l’accesso a Internet, nella capitale Mogadiscio e in altre zone del Paese.

Ai jihadisti non è parso vero: rivedere uno Stato nel caos politico-istituzionale e una popolazione alle prese con fame, terrore e Covid-19. Un jackpot inatteso della Storia che alimenta la sete di espansione in loco e di egemonia degli Shabaab dal grande califfato dell’Isis.

La sigla terrorista somala, affiliata ad al-Qaeda, ha dapprima accelerato i reclutamenti di giovani combattenti in piena pandemia da coronavirus, promettendo la “salvezza” alle famiglie che cedono loro i propri figli per pochi soldi; diventano soldati al servizio della causa integralista, rimpolpano un esercito che si sposta a piccoli gruppi e che, però, riesce ancora a tenere in scacco un Paese. E non solo uno: vedi il recente caso del rapimento di Silvia Romano.

Se la pandemia ha quindi aiutato gli Shabaab nel reclutamento, il caos politico-istituzionale ha dato il la a una nuova fase aggressiva del gruppo terrorista. Le loro ramificazioni dal 2011 si estendevano nell’area centro-orientale occupata, poi anche a nord del territorio somalo; infine gli Shabaab furono ricacciati indietro dalle truppe dell’Amisom. Dalla fine del 2017, l’esercito dell’Unione africana ha però iniziato un temporaneo ripiegamento, di fatto lasciando gradualmente la Somalia.

Chi difende la Somalia, o meglio i suoi governanti, oggi? La sicurezza nazionale è parzialmente in mano all’esercito nazionale, che funziona a macchia di leopardo, non proprio benissimo: se la sicurezza è formalmente in mano ai militari somali, la formazione è gestita dai “colleghi” di Ankara. Non a caso, per la prima volta, anche la più grande base militare turca d’oltremare è stata attaccata lo scorso giugno da un kamikaze: due soldati somali morti.

Parlare di Stato sovrano risulta dunque sempre più difficile, in Somalia. Camp Turksom, l’accademia militare creata dai turchi nel 2017 (si stima sia costata circa 50 milioni di dollari) fa da perno per decine di operazioni. Ma l’aiuto di Recep Tayyip Erdoğan non si estende su tutto il territorio.

La presenza militare somala si è pertanto indebolita in molte zone. Prova ne sono i due attacchi subiti in 24 ore del giugno scorso, rivendicati con crudezza dagli Shabaab: nella città di Wanlaweyn, 90 chilometri a ovest di Mogadiscio, un ordigno lasciato nei pressi della casa di un ufficiale; poi un’autobomba contro un posto di blocco vicino alla base militare nella città di Ba’adweyne, nella Somalia centrale.

È stata sponsorizzata dai terroristi come “risposta alle operazioni dell’esercito somalo nella regione del basso Scebeli”, dove avevano ucciso 60 Shabaab.

Terrore e politica. Uno scontro istituzionale interno fra due clan di Mogadiscio, ma pure un altro geopolitico tra Stati. Sulla “stabilizzazione” pesano infatti le mosse per il controllo dell’area di Qatar e Turchia, supporter del governo di Mogadiscio, contrapposte all’Arabia Saudita e agli alleati del Golfo. In mezzo, un sentiero incerto su cui la Somalia dovrebbe andare al voto nel 2021.

Tutti guardano all’anno venturo, quando teoricamente dovrebbero tenersi le nuove elezioni. Sempre se resisteranno i palazzi del potere e le regole della democrazia.

Anche l’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, ha espresso preoccupazione per quanto sta avvenendo in Somalia, sottolineando come il Paese sia ancora in un lungo percorso di ripresa nazionale per liberarsi dall’insicurezza, dai debiti e votare liberamente i leader che la dovranno guidare.

“Sino a quel momento – ha scritto in una nota – i leader della nazione somala hanno la responsabilità di garantire il raggiungimento e il mantenimento di un consenso nella politica nazionale. Purtroppo, gli sviluppi nella Camera del popolo della Somalia di sabato rappresentano una battuta d’arresto, soprattutto in merito alla fiducia dell’Unione europea nei progressi” del Paese.

Pandemia, attentati, caos. Così Al Shabaab avanza in Somalia

Di Francesco De Remigis

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