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Perché un chroniqueur che di solito tratta di temi economici italiani ed europei si interessa oggi di cosa avviene nella Repubblica di Corea e nei suoi paraggi?

Le determinanti sono tre. Due personali e di lungo periodo ed una contingente ed a cui la stampa italiana non pare dare peso. In primo luogo, negli anni Settanta ho soggiornato abbastanza a lungo in Corea, quando il Pil pro capite del Paese era la metà di quello dello Zambia, per guidare una piccola équipe che predispose la prima linea di credito a Seul per la scienza e la tecnologia. Ne ho un ottimo ricordo (tranne che, con l’eccezione di pochi piatti, del cibo).

In secondo luogo nel 2002-2004 ho curato con un economista coreano, Daewon Choi (allora in servizio alla Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Europa), un libro collettaneo sulla digitalizzazione della pubblica amministrazione in Europa e negli Usa. Lavorando due anni con Choi appresi che i coreani sono “asiatici per caso”: migrarono dai rigori delle steppe uraliche verso la temperata penisola quando parte della loro gente migrò verso l’Europa e quella che ora è la Turchia; parlano infatti una lingua della famiglia ungaro-finnica.

In terzo luogo – e questa è la determinante contingente -, il 19 ottobre la Repubblica Popolare Cinese celebra il settantesimo anniversario della prima vittoria militare di un Paese reduce da cinquanta anni di guerre intestine, e della invasione giapponese di parte del territorio durante la Seconda guerra mondiale e che tutti consideravano poverissimo ed agli stremi dopo “lunga marcia” della loro classe dirigente. Avevano proposto a Mosca un’azione comune contro i “caschi blu” delle Nazioni Uniti chiamati a riporre ordine della penisola dove il Nord aveva attaccato improvvisamente il Sud (facendo stragi di ogni genere). Ma Stalin in persona aveva mandato Chu En Lai al diavolo. Allora mobilizzarono in segreto 300.000 uomini e scatenarono un’offensiva contro i “caschi blu”. Le forze Onu, guidate dagli Usa (in particolare dal gen. MacArthur) veniva da 18 Paesi tra cui l’Italia (che forniva ufficiali medici e infermieri), avevano riportato i nord coreani oltre il trentottesimo parallelo (la linea di armistizio definita al termine della Seconda guerra mondiale).

L’esercito cinese guadò il fiume Yalu il 27 ottobre, ma già 19 interi reparti cinesi entrarono nel territorio della Corea del Nord integrando i regolari nordcoreani. I soldati cinesi utilizzavano cunicoli sotterranei, da dove uscivano nel cuore della notte per attaccare col favore delle tenebre. I cinesi che entrarono in Corea ammontavano a 300 mila uomini, sottostimati a soli 60 mila dalla Cia americana. Nel frattempo un rigido inverno impediva l’arrivo regolare di rifornimenti di viveri ed armi alle truppe Onu. Il 25 ottobre, il 13º gruppo d’armate di quello che si era auto proclamato Esercito popolare di liberazione lanciò – a sorpresa – la sua “prima fase offensiva” sconfiggendo le truppe Onu, che non si aspettavano l’attacco proditorio.

Sappiamo come andò a finire. I “caschi blu” vinsero, alla fine, la partita. Non solo: se il presidente Truman non avesse dato il ben servito a MacArthur, la Corea sarebbe stata unificata e la stessa Cina avrebbe avuto un ben differente destino.

Non è questa la sede per rievocare la guerra di Corea. Nel settantesimo anniversario di quella che Pechino considera una “grande vittoria patriottica”, dopo avere scatenato un virus che sta sfiancando il resto del mondo – la virologa cinese Li-Meng Yan, fuggita a New York, dove vive sotto la protezione del governo degli Stati Uniti, ha documentato che è stato manufatto a Wuhan – e con un’America alle prese con elezioni molto divisive, dopo avere messo in pensione le libertà di Hong Kong, potrebbe essere tentata di fare una “sorpresa” a Taiwan che da sempre considera sua provincia.

“Nessun Dorma”!

Cosa succede in Cina, Corea e Taiwan (settanta anni dopo). Il commento di Pennisi

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