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Strano e poco edificante destino quello della parata del 2 giugno in via dei Fori imperiali. Da un copione piuttosto standard della seconda metà del secolo scorso, quando le Forze armate sfilavano in parata rendendo partecipe la cittadinanza del meglio di se stesse, con magari qualche isolata contestazione, in genere solo annunciata da gruppi pacifisti e antimilitaristi, a una deriva identitaria costante che ha preso inizio, secondo la mia personale percezione, il 2 giugno 2000.

Il presidente Ciampi aveva appena deciso di riconferire solennità e rango alla cerimonia, intendendo con questa far sentire ai militari la vicinanza e l’affetto della popolazione per il loro impegno al servizio della Patria. Chi più dell’Aeronautica militare il 2 giugno di quell’anno sarebbe stato meritevole di un riconoscimento, visto che solo pochi mesi prima, a giugno del 1999, era uscita a testa alta da un conflitto, quello dei Balcani combattuto con professionalità, coraggio e dedizione unanimente riconosciuti dagli altri 15 Paesi alleati?

Invece, gli equipaggi di volo, quando già affluiti a Pratica di Mare per sfilare sui Fori, furono rispediti a casa per una decisione inaspettata e assurda di palazzo Chigi, per la precisione della segretario generale di allora, Linda Lanzillotta, la quale “scoprì”, complice credo il soprintendente archeologico Adriano La Regina, che il rumore degli “aerei da guerra” (così li definì) causava danni irreparabili alle rovine romane. Così quell’anno e gli anni a venire, solo le Frecce Tricolori furono ammesse alla parata, e al contempo si avviò ogni anno una sorta di attacco alla diligenza, la parata del 2 giugno, dove tutti rivendicavano il diritto di sfilare: Protezione civile, polizia municipale, associazioni di ogni tipo, sindaci, pacifisti avvolti nella loro bandiera, scolaresche e chi più ne ha più ne metta. Anche la solennità della cerimonia cominciò a scricchiolare.

Ci fu un anno in cui non sfuggì ad alcuno lo sguardo distaccato, e in qualche caso di aperta disapprovazione, stampato sul volto delle cinque massime autorità dello Stato allo sfilare dei reparti, sopratutto quelli con uno spirito di corpo e di appartenenza più vivace ed evidente. Altro che gli applausi auspicati da Ciampi.

Come pure non è passato inosservato l’atteggiamento sul palco autorità dell’attuale terza  carica dello Stato, piantato con le mani platealmente in tasca al suono dell’inno nazionale.

O che dire del più recente sfregio alla parata, quando lo scorso anno il ministro Trenta decise di dedicarla al “tema dell’inclusione”, come se una ministro qualsiasi, appena paracadutata nel mondo della politica e delle istituzioni, fosse autorizzata a manipolare a proprio piacimento il significato di una cerimonia radicata nel sentire profondo del mondo militare e dei cittadini. E per conferirle tra l’altro, un significato bislacco e del tutto fuori tema.

Ecco quindi che la festa della Repubblica, quest’anno, può essere considerata una sorta di beneficio collaterale di Covid-19, un’occasione per una riflessione ragionata e definitiva su che cosa debba rappresentare questa cerimonia. Un punto di partenza obbligato non può che essere la Costituzione, nel dettato della quale vanno individuati i simboli da celebrare e da porre sotto il riflettore sul  palcoscenico della nostra storia, i Fori imperiali.

Intanto non ha più senso chiamarla parata militare, perché il mondo militare è solo un’articolazione e neppure la più significativa, della Repubblica.

Sul Corriere della Sera, la presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, ha riassunto ed elencato bene i significati più profondi della nostra struttura statuale e, se il trend degli ultimi anni dovesse riflettere l’auspicio collettivo, non vi è dubbio che l’identità della parata non possa che essere conformata all’articolo 114 della Costituzione che dice: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Città Metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Insomma, come dice Cartabia, “la Costituzione utilizza la parola Repubblica in un più ampio significato che indica il complesso di tutti i pubblici poteri che compongono l’intero ordinamento”.

Con questa premessa cardine è possibile mettere mano a un copione nuovo della cerimonia, un contenitore che racchiuda tutti i protagonisti della Repubblica così come postula la Legge fondamentale.

E i militari individuino, se il Paese lo vuole, un’altra occasione più emblematica per prospettare pubblicamente e celebrare la propria identità.

Naturalmente, l’una e l’altra circostanza saranno occasione per misurare in maniera più selettiva l’affetto e la riconoscenza degli italiani, una sorta di termometro che l’informe e scombinata miscellanea della parata oggi non consente.

Il 2 giugno ai tempi del Covid-19? Un’occasione per ripensare la parata. Scrive Tricarico

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