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L’emergenza coronavirus, che ha reso non agibili anche i tribunali, sta accelerando l’introduzione del processo per via telematica, usualmente definito “da remoto”. Questo tipo di processo solleva pochi problemi nell’ambito civile, ma in quello penale è un fatto che rasenta l’impensabile anche per chi non ha familiarità con il significato e l’importanza della procedura penale. In un processo civile è chiaro che il giudizio possa basarsi su atti scritti. Qui si può ritenere naturale che sia possibile produrre per iscritto gli elementi utili al giudice per decidere.

Nel processo penale però la prova si deve formare in dibattimento. Questa prova deve formarsi lì con il contributo di tutte le parti, compreso il giudice. Dunque si deve poter indicare la possibile falsità, mendacità del teste. Un esempio, per capirsi: se un testimone dice di aver rincorso l’assassino e di averlo così potuto vedere in faccia, ma il teste è zoppo, l’avvocato difensore o lo stesso giudice potrà dirlo, avendolo osservato mentre entrava in aula: da remoto anche questo diventa improbabile.

C’è poi il contraddittorio tra teste e avvocato. Chi può assicurare che l’avvocato sentirà subito e bene quel che dice il teste? E se trovandosi costretto a dire “scusi, può ripetere? L’audio non funzionava ” consentisse al teste di cambiare versione o di fornirne una più ragionata? E se al giudice o all’avvocato sfuggisse una parola saprebbero sempre eccepire?

C’è poi l’obbligo di udienza pubblica. Perché? Perché il processo deve essere trasparente, nulla di esso può essere segreto. Il processo telematico però non può essere pubblico. Dunque il processo diventa segreto? A porte chiuse? Nessuno può assistere? E in quella segretezza chi può assicurare il rispetto della piena regolarità di tutto? Non potrebbe così diventare lecito anche il sospetto che un teste parli con appunti in mano, appunti nei quali qualcuno gli ha scritto cosa deve dire? Dobbiamo fare a fidarci? E l’attenzione del magistrato?

Come può assicurarla in video-conferenza? Chi può assicurare che nulla lo distrarrà, che non sia occasionalmente preso da altro? Magari potrebbe essere distratto da emergenze o da imprevisti, domestici o collegati all’ambiente in cui si trovi. Tutto questo ovviamente crea legittime preoccupazioni, in particolare modo, ma non soltanto, da parte di chi deve difendere.

Un altro aspetto importante, rilevante, è quello relativo all’ultima parola. L’ultima parola che il magistrato deve sentire è quella della difesa. In questo tipo di processo chi può assicurarci che l’ultima parola che il magistrato ascolterà, prima di chiudersi a decidere la sentenza, sia quella della difesa? Chi può assicurarlo? E chi può assicurare che mentre il magistrato sta chiuso, da solo con la sua coscienza, non intervengano fattori domestici, o comunque estranei al giudizio, a sviarlo?

L’incidente, magari domestico, è sempre in agguato, ma un giudizio non può essere sospeso da un caso, da un’improvvisa emergenza che può costringere il giudice ad accelerare i tempi della sua decisione o a rinviarla, obbligandolo a riprendere il suo discernimento in un contesto mentale nuovo, diverso, nel quale alcune attenzioni potrebbero svanire.

Un altro problema ancora: riguarda la tecnica. In capo a chi è la competenza tecnica del collegamento che determina la piena qualità audio e video? Al giudice? Dunque oltre a seguire il dibattimento deve seguire anche la qualità del collegamento? Quante funzioni deve svolgere il magistrato oltre a quella di giudice? Ed è lui anche il tecnico e il responsabile della qualità audio? Anche di quella video? Ed è lui che stabilisce se la ripresa è abbastanza larga? Deve concentrarsi anche sugli spostamenti dei testi?

Trovo in tutto questo rilevante anche la spinta determinata dal fattore tempo. Questi processi telematici si farebbero per non fermare la macchina della giustizia. Dunque c’è un’urgenza? Un detenuto, un imputato, va giudicato con l’incubo della fretta, del dover far presto? Ed è il presto a prevalere sul giusto?

Il ministro Alfonso Bonafede, ricordo, una volta ha detto in televisione che gli innocenti non finiscono in galera. Forse il ministro Bonafede non ha letto i Vangeli, eppure i testimoni fino a pochi anni fa giuravano di dire la verità, e Dio con il giuramento ha qualcosa a che fare. Ora si impegnano a dire la verità: per molti però cambia poco. Ma non serve per forza arrivare a Gesù per trovare un innocente condannato.

Basta andarsi a vedere Sacco e Vanzetti, o ricordarsi del caso Tortora, o del meno noto caso di Giuseppe Gulotta, che era stato accusato, quando aveva 18 anni, dell’omicidio di due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, trucidati il 26 gennaio 1976 ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani: lui fu condannato all’ergastolo nel 1990. Dopo 22 anni di carcere è stato riconosciuto innocente. Ed è per questo che la forma in un processo, soprattutto penale, ha più importanza che in tante altre circostanze dove la forma è sempre importante.

La nostra civiltà giuridica si fonda sull’Habeas Corpus: significa “abbi il tuo corpo” e consiste, nello specifico, in un ordine emanato da un giudice all’autorità pubblica di portare entro un termine un prigioniero al proprio cospetto per indicare i motivi dell’arresto e consentirgli di difendersi dall’accusa. Il punto non è nel corpo o nell’immagine del corpo, la cui verifica di integrità il caso Cucchi ci insegna essere sempre importante in sé.

Il punto è nel “al proprio cospetto”: il giudice cioè deve uscire di casa per andare fisicamente, personalmente, davanti l’imputato per ascoltarlo. Deve uscire di casa per andare a vedere quell’imputato, ad ascoltarlo. In questo caso siamo proprio sicuri che sia la stessa cosa? Anche qui non può essere che, sì, lo veda, ma distratto da imprevisti, da impedimenti, da altre urgenze? Di sicuro non c’è l’atto di andare per incontrare lui, dal presunto reo.

In definitiva il rischio enorme è di non considerare che il processo è un atto liturgico, non a caso si parla di rito, ad esempio rito abbreviato. Nella liturgia tutto sembra fungibile, ma nulla lo è. Girando gli altari il Concilio Vaticano II ha trasformato il senso della celebrazione eucaristica. Girando quegli altari non si è fatta cosmesi liturgica, tutto il contrario, si è fatta una rivoluzione: si è resa un’assemblea protagonista della celebrazione.

Ogni gesto, ogni posizione, ogni parola in una liturgia risponde a un senso e se quel gesto, quella posizione, quella parola cambiasse cambierebbe il senso di tutto. Una riforma liturgica non si fa per celebrare più messe, per far prima, o cose del genere. Così anche il comparire davanti al giudice, o l’indossare la toga, o il chiudersi davvero in camera di consiglio e non, altrove, magari in cucina, sono atti fondamentali, che molti, come chi scrive, può solo intuire, ma che una comunità deve difendere. Sono consolidati di secoli di cultura, di vita, di senso, che prima di toccare bisogna avere presenti ben altre esigenze che quella di fare presto.

Caro ministro Bonafede, il processo è un atto liturgico. L’appello di Cristiano

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