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Gli aiuti di Usa, Cina e Russia in Italia per gestire la crisi del Covid–19 sono stati accompagnati da reazioni dal tenore opposto che hanno polarizzato per la verità più gli opinionisti che un’opinione pubblica ancora tramortita dall’emergenza e poco disposta alle polemiche.

In un precedente articolo spiegavamo che quando uno Stato ne aiuta un altro, alla base ci sono scelte di politica estera che vanno capite, senza santificarle o demonizzarle. Prima di scrivere su queste pagine delle motivazioni dei donatori (in particolare del caso russo), è bene chiedersi quali opzioni di scelta reali abbia avuto nella vicenda in oggetto l’Italia, intesa come beneficiario dell’assistenza.

Lo spunto lo fornisce una recente intervista a Formiche.net di Edward Luttwak, dove l’esperto americano, mosso dal suo proverbiale realismo politico, spiega che l’Italia avrebbe dovuto rifiutare l’aiuto di Russia e Cina.

È una posizione che non sorprende l’analista di aiuti internazionali, per definizione poco propenso a credere all’aiuto spassionato tra Stati. Una delle prime conclusioni dallo studio di decine di interventi in altrettante catastrofi umanitarie di ricostruzione o di transizione è che quasi sempre i donatori hanno interessi politici superiori a quelli dei beneficiari. In altre parole, per uno Stato è più conveniente dare aiuti che riceverli.

Il punto è che raramente uno Stato è libero di scegliersi il ruolo di beneficiario. È condizione in cui scivola in maniera imprevista e di cui prende coscienza a status acquisito, quando oramai è troppo tardi per poterne uscire unilateralmente. Uno dei principali problemi di questa posizione è la debole capacità del beneficiario nel negoziare le condizioni dell’aiuto e se del caso rifiutarlo.

Come dimostrano numerosi casi storici, il donatore è quasi sempre in una posizione favorevole per “imporre l’aiuto”. Il contrario avviene talmente di rado da essere additato come caso da manuale (uno su tutti, la Russia dei primi anni di Putin, che restituisce in blocco ed in anticipo tutto il dovuto al Fondo Monetario Internazionale).

Nel pieno di una emergenza sanitaria che l’ha colta impreparata nei fondamentali (vedi l’altissimo numero di contagiati e vittime tra il personale medico), con un netto rifiuto di solidarietà dai partner tradizionali europei (vedi la surreale vicenda delle mascherine) – l’Italia si è trovata all’improvviso vulnerabile e – anche senza richiedere un aiuto – a diventare un potenziale beneficiario.

Porre un rifiuto alla offerta di aiuto proveniente da donatori sarebbe stato politicamente difficile oltre che potenzialmente destabilizzante per un’opinione pubblica in stato confusionale davanti ai bollettini di guerra quotidiani provenienti dal fronte della sanità pubblica.

C’è da sottolineare che più l’aiuto offerto dal donatore è percepito come di emergenza, e più entra in una zona di acriticità nel comune sentire, che lo rende ancora più difficile da mettere in discussione. Il “fare del bene” diventa automaticamente nel mainstream il “farlo bene”.

In definitiva, rifiutare l’aiuto di questi giorni – benché ipotizzabile da un punto di vista della teoria delle relazioni internazionali – non era strada facilmente percorribile per l’Italia e anzi, avrebbe forse esposto il suo governo a una serie di critiche insostenibili, in una situazione sociale già esplosiva.

C’è una lezione da trarre su come raffrontarsi con questi aiuti che può essere mutuata dall’esperienza della guerra in Bosnia ed Erzegovina, la più grande recente emergenza umanitaria europea prima del Covid-19, che ahimè chi scrive ha avuto modo di vivere di persona, essendo originario di quel Paese.

Mentre tra i bosniaci l’odio per la guerra non è mai stato in discussione ed è stato costante, lo stesso non si può dire dell’amore per gli aiuti che si riversarono confusamente nel Paese e che scatenarono sensazioni diverse, a volte positive, a volte – va detto – molto negative.

Soprattutto quando aggiunsero danni alla distruzione e fecero nascere una generazione di “vittime degli aiuti” e una “dipendenza dall’assistenza” da cui ancora oggi il Paese fatica a riprendersi.

Se si dà per scontato che la guerra sia portatrice di sofferenza, molto meno lo si accetta che lo siano dagli aiuti e – quando ciò avviene – il senso di frustrazione è anche maggiore.

E tuttavia vi sono due massime degli anni bosniaci che sembrano applicarsi bene al drammatico contesto di questi giorni.

La prima è che in emergenza gli aiuti che non piacciono si combattono non tanto con le polemiche che altro non fanno che aggiungere ulteriore confusione ad un contesto sociale già debole e confuso – quanto bilanciandoli e rilanciando con altri aiuti “migliori”, se serve mettendoli in competizione.

La seconda è che nel momento dell’immediato bisogno, dovendo scegliere, è meglio affidarsi a chi aiuta per un interesse che a chi ha un interesse a non aiutare.

Con tutti i limiti del caso, ben venga in questa fase dunque la competizione anche se interessata di aiuti bilaterali Usa, Russia e Cina (che competeranno e si bilanceranno a vicenda) rispetto all’inerzia dell’Ue, bloccata in una surreale discussione sul Mes.

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