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“Sentinella, a che punto è la notte?” Se non fosse un po’ sacrilego, verrebbe voglia di richiamare il profeta Isaia per descrivere la situazione politica italiana. Forse verrà il giorno, ma intanto è buio profondo. Il primo elemento che risalta è l’immobilismo del governo, che non riesce a portare a termine nessun dossier aperto (Alitalia, ex Ilva, Autostrade), e nemmeno a sbloccare qualcuno dei provvedimenti annunciati in pompa magna, salvo poi essere attenuati e infine smentiti (vedi il taglio dell’Iva), per far ripartire il Paese. Diciamo la verità: il governo è immobile non per incapacità (quella pure c’è, e bella evidente, e fa danni non indifferenti come alla voce scuola, ma tutto sommato è un po’ la cifra del nostro tempo): lo è perché non può muoversi assolutamente, pena spezzare il fragile equilibrio che lo tiene in piedi. È un non governo, che viene tenuto in vita per scopi estrinseci quali possono essere la messa fuori gioco di Matteo Salvini e la volontà di eleggere nel 2022 un Presidente della Repubblica gradito.

Due forti zavorre legano i piedi al Conte bis: una quella economica, per cui oggettivamente dipendiamo dall’Europa, la quale, come si fa coi bambini discoli e recidivi nelle intemperanze, ci farà penare ogni singolo euro che dirotterà verso le nostre malandate finanze (e del cui utilizzo chiederà conto con molta pignoleria); l’altra, quella politica, che porta inevitabilmente a una divisione interna alla maggioranza e anche alle singole forze politiche che la compongono sol che il governo si azzardi a prendere una decisione una su uno qualsiasi dei dossier aperti.

Si vive allora aspettando Godot, che è un evento sempre di là da venire e che si spera sempre possa essere chiarificatore in positivo: che sia il vertice (questa volta non in videoconferenza) dei capi di Stato e di governo europei previsto il 17 luglio sotto la presidenza tedesca; oppure l’election day (regionali più referendum elettorale) fissato per il 20 settembre, che è poi (ci avrà pensato qualcuno?) pure la data dell’anniversario della breccia di Porta Pia.

L’ immobilismo politico italiano storicamente non è una novità. Nella Prima Repubblica c’erano leader scaltrissimi, che, arrivati a fine giugno, sapevano con maestria far decantare la situazione, aspettare il “generale agosto” e rimandare tutti i problemi sul tappeto, come si diceva allora, a settembre, coi primi freschi. C’era però allora una differenza non da poco rispetto ad oggi, anzi due. Da una parte, viste col senno del poi, le emergenze di un tempo erano quisquiglie, per dirla col Principe de Curtis, e tutti sapevano che, se anche Roma aveva continue convulsioni, il Paese era stabile “nei fondamentali” e ad agosto tutti sarebbero corsi con spensieratezza al mare “a mostrar le chiappe chiare”. Il portafoglio, con più o meno equilibrismi, reggeva. Temporeggiare era allora facile: non c’erano disoccupazione, debiti, povertà alle porte come orizzonte reale. D’altro canto, i politici non erano costretti a comunicare come oggi ogni secondo, in tutte le forme e con tutti i nuovi e vecchi media possibili, per testimoniare la loro esistenza. Al massimo, se la cavavano, in qualche intervista a un giornale amico, con un dire bizantino e qualche formula fra l’esoterico e il criptico, dicendosi ad esempio impegnati a riflettere per trovare le dovute “convergenze parallele” in vista di “equilibri politici più dinamici”.

Oggi che tutti si aspettano concretezza, e tu concretezza non puoi darla, l’unica cosa che puoi fare è fare promesse sempre più mirabolanti nella speranza ingenua che il popolo dimentichi in fretta e tu guadagni tempo. Ecco allora che crei commissioni, sottocommissioni, consulenti, gruppi di ascolto, “cabine di regia” e Stati generali, che alla fine ti fanno rimanere nell’unico posto in cui puoi stare: il punto di partenza.

Tutto si muove, si fa ammuina, si coltiva qualche narcisismo di troppo, ma si resta al palo. Studio, analisi, “ricette” più o meno magiche, senza un piano d’azione e senza capitoli di spesa: fumo negli occhi, in buona sostanza, impaginate con slide ipercolorate e abbellite con qualche parola o inglesismo alla moda (sostenibilità, resilienza, smart…tutto!). Una cappa pervasiva di vacua consistenza che da Conte e Colao scende giù fino all’ultimo manager.

È lo spirito del tempo! Si può il Paese permettere la non decisione, e fino a quando? E anche se fosse solo fino all’autunno, non perde ora tempo prezioso per impostare un minimo di politica che attenui il crollo a due decimali del Pil previsto per fine anno? Domande sollevate da chi sembra conservare un po’ di senno in testa, tipo il governatore della Banca d’Italia o il neopresidente di Confindustria, e a cui ci si aspetterebbe che almeno l’opposizione desse una risposta forte, non semplicemente reattiva e propagandistica. Che aiutasse a smuovere gli equilibri, quanto meno.

È questo il senso, ad esempio, di una frase di Matteo Salvini, sicuramente non buttata lì a caso in una intervista al Corriere di domenica scorsa, per il quale non sarà il Pd a eleggere il prossimo Presidente della Repubblica. Cosa significa? Si spera davvero di disarcionare il Movimento Cinque Stelle, un po’ dividendolo un po’ “comprandone” senatori pronti sicuramente a “vendersi” se non altro per trovare un futuro politico. Certo, in questo modo si cade nella fitta rete dei giochetti politici, ma ci sono altri modi per spezzare lo stallo attuale? E non sarebbe forse l’ora che il Capo dello Stato traesse la conclusione che questa legislatura, nata male, non può continuare. Almeno non nello stato attuale in cui versa il Paese, con la plausibile prospettiva che il mondo finirà per crollarci addosso.

Governo e Paese... aspettando Godot. La bussola di Ocone

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